Qui Milano – Jewish in the City
La città e i progetti di Memoria
Riflettere sulla storia di una Comunità ebraica italiana significa considerare anche il capitolo buio della Shoah e la sua influenza. Un’esigenza riflessa anche nel programma del festival culturale Jewish in the City, dedicato alle celebrazioni per i 150 anni della Kehillah milanese, nell’ambito del quale ieri al Memoriale della Shoah si è svolta una giornata dedicata ad analizzare come Milano abbia reagito e sia cambiata in seguito alla tragedia e alla guerra, da un punto di vista sociale ma anche fisicamente, nella sua architettura. Un confronto aperto la mattina da un incontro organizzato dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, dedicato alla sua ricerca su “Memoria della salvezza. Gli ebrei scampati alla Shoah”, di cui il Memoriale ospita anche una mostra inaugurata nel corso di Jewish in the City. A illustrarlo la direttrice del progetto Liliana Picciotto, insieme alla ricercatrice del Cdec Chiara Ferrarotti, aiutate dal racconto diretto dei testimoni Aurelio Ascoli, Emanuele Cohenca, e David Misrachi. Il pomeriggio è stato invece dedicato a riscoprire il rapporto tra la Shoah e l’architettura, attraverso la presentazione del progetto del Memoriale della Shoah di Milano da parte del suo architetto Guido Morpurgo, seguita da una panoramica generale offerta dall’architetto del futuro Museo della Shoah di Roma Luca Zevi, per poi concludere con una conferenza su “Memoria e progetto” con l’architetto e storico dell’architettura Fulvio Irace, il critico d’arte Danielo Eccher, il preside della Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele Roberto Mordacci, il filosofo Stefano Velotti e l’architetto Mario Botta, moderati dal giornalista e scrittore Antonio Calabrò. E a concludere la giornata di riflessioni un’ultima considerazione del curatore del festival rav Roberto Della Rocca. Il quale ha fatto notare come in ultima analisi per gli ebrei il vero luogo della Memoria sia metafisico, una “prassi vivente, poiché il Talmud afferma che i monumenti degli uomini sono le loro azioni”.
Un pensiero che si rispecchia anche nella ricerca del Cdec, dedicata a raccogliere e catalogare le storie di chi scampò alla tragedia, poiché essa mostra secondo Picciotto come la Shoah sia stata “un’emergenza materiale e morale, che non riguarda solo gli ebrei ma indistintamente tutti, in cui ognuno giocò una partita, chi morendo, chi rimanendo indifferente e chi invece aiutando”. Ed è tante di queste persone che, come ha sottolineato Ferrarotti, il progetto ha permesso di rintracciare, “dando la possibilità di nominare molti nuovi Giusti tra le Nazioni”. Un riconoscimento importante, ha sottolineato Cohenca nell’ambito di alcune considerazioni di carattere generale condivise dopo la sua testimonianza, poiché “sebbene una vicenda in fondo fortunata non cancelli l’orrore della Shoah e di tutti coloro che non ce l’hanno fatta, sappiamo che una luce anche piccola può interrompere l’oscurità”.
Sono quindi molti i modi impiegati dall’architettura per rispecchiare la complessità di questi temi. Da quello di far sorgere il Memoriale della Shoah di Milano nell’unico luogo in Europa che fu teatro di quei tragici avvenimenti e la cui forma rimane ancora quella degli anni della Seconda guerra mondiale, oggetto del progetto di Morpurgo, ma anche quello meno monumentale ma altrettanto suggestivo delle pietre d’inciampo nelle strade di tutta Europa, come ha fatto notare Zevi. La persuasione che debba esistere un equilibrio architettonico e ideologico come veicolo di comunicazione è anche alla base del progetto di Botta, realizzatore della sinagoga dell’Università di Tel Aviv, nata avere un luogo di culto all’interno dell’ateneo che restasse tuttavia un luogo aperto anche alla componente meno religiosa del campus. Una dialettica ancora più importante quando si parla di luoghi della Shoah, come ha aggiunto Mordacci, “perché se stiamo a quanto è accaduto per il suo valore simbolico e la realtà storica sembra che nessun progetto sia più possibile, e per questo è necessario non limitarsi alla colpevolezza dell’evento ma chiedere al visitatore di raccogliere una sfida”.
In questo senso l’arte figurativa è secondo Ecchert in grado di “toccare nervi sensibili attraverso la dicotomia tra la percezione e la suggestione” e può diventare uno strumento importante a livello culturale e politico. Anche per Velotti la Memoria è un “progetto di singole antinomie, come quella tra
un ricordo che blocca ma libera, o quella del museo che deve integrarsi alla città ma distinguersi”, e anche per lui l’empatia diventa uno strumento per comunicare la storia. E la soluzione per superare tali antinomie è per Irace “creare una nuova storia che chiama ciascuno di noi alla nostra responsabilità, e un progetto di Memoria – la sua conclusione – deve lasciare alcune zone d’ombra aperte all’immaginazione e non raccontare tutto, poiché del resto anche la verità è sempre mutevole”.
(1 giugno 2016)