La relazione del Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna presentata al Consiglio UCEI del 15 maggio sta suscitando un ampio confronto. Qui di seguito alcuni degli interventi.
“Affrontiamo il mare aperto”
Cari Consiglieri, cari amici,
siamo giunti al termine del mandato che è iniziato nel giugno del 2012 e questa è l’ultima riunione del Consiglio; siamo il primo Consiglio che ha sperimentato e collaudato gli effetti della riforma dello Statuto del 2010.
Su questa riforma, che ha creato il nostro piccolo Parlamento, ho ascoltato e ho letto le opinioni più disparate, sia positive che negative.
La mia valutazione è fortemente positiva perché ci ha dato la possibilità di vedere, per la prima volta, un ebraismo italiano unito e solidale, costantemente collegato e non solo nel corso degli incontri tra le ventuno Comunità in occasione dei Congressi.
Si compie tra pochi giorni il decimo anno della mia presidenza dell’Unione e voglio rendervi partecipi di alcune mie riflessioni e valutazioni di questi ultimi mesi, partendo da una breve introduzione di carattere personale.
Ho vissuto come un grande onore poter ricoprire per un periodo così lungo questa carica prestigiosa, significativa e coinvolgente per una persona come me che, per circa sessanta anni, ha lavorato per l’ebraismo e per le sue istituzioni, iniziando con le organizzazioni giovanili e proseguendo con il Consiglio della Comunità di Roma.
Ringrazio voi che avete onorato l’impegno assunto, voi che avete ricoperto attivamente, fino ad oggi, la carica alla quale siete stati eletti, per la possibilità che mi avete dato, accordandomi la vostra fiducia, di vivere questa esperienza entusiasmante, senza mai lasciarmi solo, ma condividendo tutte le responsabilità, anche e soprattutto nei momenti più difficili; rivolgo quindi un sentito ringraziamento a tutti voi Consiglieri, membri di Giunta e professionali, che ci avete affiancato.
Attraverso le riflessioni di questi ultimi mesi sono giunto anche alla conclusione che tutti conoscete, perché non ne ho mai fatto mistero, di non ripresentare la mia candidatura per le prossime elezioni del 19 giugno 2016.
Non sono né stanco né deluso, al contrario sono sereno e orgoglioso del lavoro svolto, ma sono certo che sia giunto il momento migliore per facilitare e assecondare un tranquillo e democratico ricambio al vertice dell’Unione e ritengo che abbia un preciso e positivo significato che il ricambio non avvenga sotto la pressione di fattori esterni, ma per una mia precisa scelta di chiudere una stagione della mia vita, favorendo un avvicendamento nella continuità e anteponendo così il bene dell’Unione e dell’ebraismo italiano a qualsiasi altra considerazione.
Nel redigere questa relazione conclusiva ho pensato che fosse utile una sintetica trattazione dei temi che considero attuali nel periodo storico che stiamo attraversando.
Tutte le Costituzioni degli Stati democratici sono ispirate e contengono il principio della laicità, inteso come netta separazione tra lo Stato e le Istituzioni e le organizzazioni confessionali.
In ogni caso una netta distinzione tra leggi civili e regole religiose, storicamente, si è sempre rivelata la più forte garanzia per il rispetto dei principi di libertà ed eguaglianza, soprattutto per le minoranze, in quanto nessuna ideologia o religione può essere privilegiata o sfavorita.
Viene spontaneo domandarci se queste concezioni della democrazia e della laicità siano ancora attuali di fronte alle grandi sfide che l’umanità si trova a fronteggiare e che derivano dalla coesistenza all’interno delle stesse entità nazionali e sovranazionali, di identità, etnie e religioni che si riconoscono in principi e valori tra loro contrastanti.
Se ogni comunità esistente all’interno dello stesso contesto sociale pretendesse di rimanere chiusa in sé stessa e tesa a realizzare al proprio interno una totale omogeneità di idee e di comportamenti, sarebbe inevitabile un progressivo irrigidimento delle posizioni e un’accentuazione dei contrasti e dei rischi di conflitto.
È necessario che nelle società contemporanee si proceda a un aggiornamento di questi principi; non sembra più sufficiente che gli Stati garantiscano la libertà e l’eguaglianza fra i cittadini, si sente la necessità che si fissino anche le regole e si garantisca la possibilità che tra le varie componenti si svolga un pacifico e produttivo scambio culturale.
Nel secolo scorso milioni di ebrei sono emigrati o fuggiti verso l’Europa occidentale, le Americhe ed Israele divenendo parte integrante e costitutiva di società nelle quali è certo indispensabile conservare la propria identità, ma anche uscire fisicamente e psicologicamente dai ghetti, imparare a convivere, comunicare, integrarsi in società libere e aperte nelle quali, in senso non retorico e non teorico, la varietà è vera ricchezza e le diverse ideologie, teologie e tradizioni convivono in pace, con pari dignità e reciproco rispetto.
L’ebraismo deve conservare le sue caratteristiche originarie di rifiuto di qualsiasi forma di idolatria e di conciliare rigore e flessibilità, lasciando, come il Talmud insegna, ampi spazi alla dissertazione filosofica, alla ricerca scientifica e alla libertà di interpretare e sviluppare il dibattito come valore positivo e irrinunciabile, rispettando le diverse correnti di pensiero, ma conservando sempre la capacità di riportare tutto all’unità.
Le forme di chiusura e ripiegamento in se stessi, adottate nei secoli scorsi dai nostri antenati per autodifesa, appaiono superate, inutili e dannose in un mondo globale nel quale confini e barriere si sono fortemente affievoliti e non esistono più microcosmi impenetrabili e incontaminabili.
Un futuro dell’ebraismo che sia degno dei suoi valori universali e delle sue gloriose e plurimillenarie tradizioni non potrà esistere senza l’uscita da qualsiasi forma di isolamento, uscita alla quale siamo insistentemente chiamati dalle società contemporanee e democratiche nelle quali viviamo e delle quali siamo parte integrante.
Sarebbe un’illusione antistorica, un errore fatale, la perdita di un’occasione unica, e forse irripetibile, se ci sottraessimo all’apertura e al confronto che, si badi bene, sono cose ben diverse, anzi opposte, all’assimilazione; sono infatti prove di fiducia in noi stessi e stimoli al rafforzamento della nostra cultura e della nostra identità per poter essere all’altezza di qualsiasi sfida o confronto e in tal modo sconfiggere, una volta per tutte, quell’insegnamento del disprezzo che non è ancora completamente debellato.
Per noi è opportuno e necessario uscire dai porti, solo apparentemente sicuri, staccarci dagli ormeggi fissi e statici e affrontare coraggiosamente il mare aperto guidati con prudenza e con saggezza dai nostri Maestri; navigare nel mare aperto può sempre comportare rischi e riservare sorprese, ma non esistono alternative se si vuole continuare a partecipare e contribuire, come protagonisti, all’evoluzione della civiltà contemporanea e al tempo stesso riscoprire continuamente la nostra forza interiore.
La nostra forza dovrà esprimersi, d’ora in avanti, indirizzando il nostro popolo fuori e lontano dai ruoli contraddittori che chi non ci ama tende da secoli ad attribuirci, di vittime, di sfruttatori, di arroganti e spietati usurpatori.
Noi ebrei, anche sulla base della nostra esperienza storica, dovremmo rifuggire da qualsiasi tentazione all’estremismo, alla faziosità, alla chiusura in noi stessi, all’isolamento culturale, al verbo unico, ai dogmi; dovremmo combattere il fascino insidioso della demagogia ideologica e verbale, sia teorica che pratica.
Estremismo e demagogia sono figli della paura e si nutrono di banali, arbitrarie e volgari semplificazioni, alterano le relazioni umane, inducono al pregiudizio e all’odio nei confronti del diverso, stimolano alla continua e perenne ricerca di nemici veri o immaginari, alla diffidenza verso gli amici, all’alterata visione di una realtà sempre e solo bianca o nera, senza sfumature.
L’estremismo del linguaggio, l’uso sconsiderato di provocazioni verbali, non toccano solo aspetti di pura forma perché producono effetti traumatici e danni reali e concreti, sviluppano la tendenza a demonizzare non solo gli avversari, ma spesso anche gli amici se chiedono uno spazio per il dialogo o una maggiore apertura.
Se un simile degrado si presentasse fra noi dovrebbe essere duramente contrastato ricordandoci che, secondo le Legge ebraica, nessuno ha il diritto di affermare di essere un’autorità suprema depositaria della verità e che nessuno è titolare del potere assoluto e indiscutibile di accogliere o di escludere chiunque.
Fondamentalismo e integralismo non sono termini equivalenti, anche se frequentemente vengono abbinati e confusi.
La differenza emerge chiaramente se si risale alla loro origine storica ed etimologica.
Nonostante le differenze, sia il fondamentalismo che l’integralismo, aspirano alla costruzione di società e di stati teocratici nei quali tutti i poteri, legislativo, esecutivo e giurisdizionale siano ispirati e sottomessi a un solo potere religioso.
Appare ogni giorno più evidente quali siano le drammatiche conseguenze che derivano dal rifiuto dei principi di democrazia e di laicità dello Stato, i soli che possono assicurare parità di diritti e dignità fra maggioranze e minoranze, fra credenti e non credenti, fra cittadini e stranieri.
Non ho la pretesa di aver esaurito gli importanti argomenti che ho appena accennato ma il mio compito era oggi di sottoporvi una relazione che contenesse una sintesi delle linee guida che hanno ispirato la mia e la nostra azione negli ultimi quattro o dieci anni e che fossero, a mio giudizio, ancora validi e attuali per l’immediato futuro.
Grazie per l’attenzione e la pazienza con le quali mi avete ascoltato.
Renzo Gattegna, Presidente UCEI
“L’educazione è un tema chiave”
Nell’ultima riunione del Consiglio UCEI, il Presidente avv. Gattegna, al termine del suo mandato di dieci anni di presidenza, ha letto una relazione conclusiva. Desideriamo in primo luogo esprimere la nostra gratitudine per l’impegno disinteressato di tutti i Consiglieri e in particolare al presidente uscente, che non intende continuare la sua attività, per la sua lunga militanza disinteressata e appassionata a favore dell’ebraismo italiano. Il rispetto e la gratitudine sono fuori discussione ma questo non può cancellare opinioni e visioni anche molto diverse, valutazioni critiche di impostazioni e risultati che devono fare parte di un sano dibattito per il bene comune. È proprio quanto lo stesso presidente afferma nel suo invito al dialogo che deve essere condotto rifiutando estremismo, demagogia, provocazione e demonizzazione dell’avversario, regola che ovviamente deve valere per tutti.
Per questo spirito dialogico riteniamo che non possano essere passate sotto silenzio alcune affermazioni contenute nella relazione del presidente. Da questa sembra emergere, come punto centrale del messaggio, il rifiuto del l’isolamento contro “le forme di chiusura e ripiegamento in se stessi, adottate nei secoli scorsi dai nostri antenati per autodifesa” e che, a detta del presidente, “appaiono superate, inutili e dannose in un mondo globale nel quale confini e barriere si sono fortemente affievoliti e non esistono più microcosmi impenetrabili e incontaminabili”. Desideriamo premettere che il giudizio espresso sulle strategie adottate in passato dai nostri Maestri per mantenere vivo e vitale l’ebraismo, preservando negli ebrei un’identità forte e una dignità tenace, ci pare approssimativo e fuorviante rispetto a quanto possiamo tuttora recepire del loro esempio e insegnamento. A parte questo punto preliminare, ciò che ci preoccupa nell’impostazione del messaggio del presidente uscente è prima di tutto la centralità di questo discorso, che sembra l’unico tema programmatico. La realtà critica dell’ebraismo italiano che si contrae demograficamente ogni giorno dovrebbe essere al centro di una relazione presidenziale e di qualsiasi progettazione comunitaria e dell’UCEI. Spostare l’attenzione al confronto con l’esterno pone delle serie domande. E non si dica che la preoccupazione per il nostro interno e il nostro futuro è ovvia e implicita. O peggio che “l’uscita dal l’isolamento “, quando poi questo isolamento è solo un mito, rappresenti la cura del problema.
A parte la centralità del tema nella relazione, c’è da commentare anche nel merito dell’argomento. Che non ha niente di nuovo. Certe cose le hanno dette già ai tempi dello statuto albertino o quando i bersaglieri sono entrati a Porta Pia. Con quali risultati per la nostra sopravvivenza e con quante illusioni e tragiche disillusioni si può discutere. Lo schema e l’opposizione proposta dal presidente, tra chiusura e apertura, proprio alla luce della attualità e globalità è infondato, superato, banale e rischioso. Il confronto con il mondo non ebraico non è un obiettivo da ricercare così ansiosamente perché fa già parte della nostra realtà quotidiana, ci dobbiamo invece preoccupare di come fornire al pubblico delle Comunità ed ai giovani in particolare quelle esperienze di vita ebraica e quelle conoscenze di ebraismo che sono indispensabili, innanzitutto per l’esistenza stessa delle Comunità e in secondo luogo per affrontare con concretezza e consapevolezza il dialogo con l’esterno.
Vorremmo quindi ricordare a tutti che cosa tiene viva una comunità ebraica. Non la tiene viva, al contrario di ciò che sembra pensare il presidente, un dibattito pseudo-filosofico che riguarda poche persone che non incide sulla vita comunitaria. Ciò che tiene viva una comunità è l’educazione ebraica, la scuola, il Talmud Torà, il Bet Midrash. L’educazione ebraica potrebbe far fare un salto di qualità anche al dibattito permettendo, per esempio, di parlare di tradizione ebraica avendo conoscenza del testo e delle fonti. Una comunità è viva se ci sono Battè Kenesset funzionanti, se ci si occupa di chi è in difficoltà, se si ha un’idea di quale sia un possibile futuro delle attività giovanili. Abbiamo l’impressione che di tutto questo ci si occupi troppo poco. Pensiamo, nel pieno rispetto delle differenti opinioni e identità e senza ignorare il rapporto con l’esterno, alle nostre vere priorità, alla necessità di educare e investire nelle nostre Comunità e nel nostro futuro. Speriamo che il nuovo Consiglio dell’UCEI ribalti finalmente la prospettiva.
Il Consiglio dell’Assembla rabbinica italiana (Alfonso Arbib, Riccardo Di Segni, Alberto Funaro, Adolfo Locci, Giuseppe Momigliano)
“Il confronto e il dialogo rafforzano l’identità”
La relazione che ho presentato al Consiglio dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane riunito il 15 maggio 2016 non è un programma elettorale, né un resoconto dettagliato del lavoro svolto nella qualità di Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ma un messaggio di saluto e di commiato alla vigilia della scadenza del mio mandato di presidente, iniziato nel 2006 e durato dieci anni.
Il documento da me redatto non contiene nulla di nuovo e non è rivolto contro nessuno; ha il carattere di una mia riflessione, aderente e coerente con tutto ciò che ho dichiarato e scritto negli anni trascorsi e con tutte le delibere adottate dal Consiglio e dalla Giunta a larga maggioranza, anche con il voto favorevole dei rabbini. Il fine che mi sono posto è stato, come sempre, quello di rafforzare l’identità e la cultura ebraica, oltre al prestigio delle Comunità ebraiche di fronte alle istituzioni del nostro Paese e ai nostri concittadini.
Con sorpresa e amarezza mi trovo a dover prendere atto che il mio messaggio di carattere generale finalizzato all’unità e alla concordia è stato letto e frainteso dal Consiglio dell’Assemblea Rabbinica Italiana, che ha così trasformato un’occasione di dibattito sereno e costruttivo in una polemica aperta, nella quale mi vengono attribuiti intenti, tesi, progetti e opinioni che non ho mai avuto, professato, espresso o posto in essere.
Parlare di apertura verso la società italiana non significa abbandonare o trascurare la propria identità e la propria cultura, né equivale a proporre di eliminare il perimetro che definisce l’ebraismo italiano, che si riconosce nella tradizione e nell’Halakhà, così come esplicitato nel nostro Statuto; anzi, è vero l’esatto contrario, perché l’apertura e il confronto con l’esterno si basano sul rafforzamento della nostra cultura e della nostra identità.
Rileggendo il testo del Consiglio dell’ARI ho potuto notare che in un primo momento viene testualmente riportato, con riferimento alla chiusura in autodifesa, il termine “antenati”, presente nella mia relazione; tuttavia nel seguito viene usato quale sinonimo il termine “Maestri”, distorcendo così il mio pensiero.
Come si può comprendere dalla lettura della relazione, inoltre, non ho mai pensato di giudicare, tanto meno negativamente, le strategie adottate in passato dai nostri antenati – verso i quali siamo tutti debitori – per mantenere vivo e vitale l’ebraismo.
In un altro passaggio della mia relazione non citato nel comunicato dell’ARI, infine, ho scritto che “occorre affrontare coraggiosamente il mare aperto, guidati con prudenza e con saggezza dai nostri Maestri”.
Ma il comunicato del Consiglio dell’ARI, costituisce soprattutto un pericoloso precedente. Per il suo contenuto e per la scelta dei tempi e delle modalità di diffusione, esso costituisce, a mio avviso, un intervento imprudente e improprio, nella campagna elettorale che è in pieno svolgimento.
L’auspicio finale con il quale si conclude il comunicato, che “il nuovo Consiglio dell’UCEI ribalti finalmente la prospettiva” dei Consigli precedenti, rischia di minare l’immagine di una Rabanut indipendente, che costituisce un pilastro fondamentale per la nostra vita comunitaria.
Peccato che siano stati sottovalutati gli effetti dannosi derivanti dall’accentuazione di divisioni e di contrapposizioni nell’ambito dell’ebraismo italiano e che ciò venga fatto lanciando accuse prive di fondamento, come quella di dedicare attenzione all’apertura verso la società e di trascurare la cultura ebraica. L’infondatezza di questa affermazione è facilmente verificabile prendendo in esame i progetti, le realizzazioni e i bilanci dell’UCEI degli ultimi anni.
Ritengo molto pericoloso dare maggior valore alle promesse elettorali invece che ai fatti concreti portati avanti con coerenza, con continuità, con efficacia e correttezza per molti anni.
La correttezza economica, amministrativa e contabile, inoltre, non è un fattore di secondaria importanza, tanto più per un ente che deve gestire fondi provenienti dallo Stato italiano e da cittadini italiani tramite l’8 per mille. Al contrario sono un’esigenza precisa e irrinunciabile sul piano operativo e sul piano etico; ciò è apparso in grande evidenza a seguito di fatti e situazioni di criticità emerse nell’ambito delle Comunità e degli enti dalle stesse vigilati.
Negli ultimi anni sono stato attaccato violentemente e proditoriamente, anche tramite social network e in altre sedi dove non mi è possibile replicare, con messaggi volti a delegittimare gli organi dell’UCEI e con messaggi calunniosi contenenti falsità e ingiurie.
Sapere, ora, che chi ha cercato di delegittimare la rappresentanza dell’UCEI sta utilizzando il messaggio dell’ARI per la campagna elettorale, non fa che confermare la fondatezza delle mie preoccupazioni.
Auspico che i membri dell’ARI vogliano prenderne le distanze con chiarezza.
Spero che il nuovo Consiglio dell’UCEI che emergerà dalle elezioni del 19 giugno prossimo, non ribalti, ma prosegua nelle prospettive portate avanti negli ultimi mandati, che sono stati dedicati soprattutto all’educazione, alla cultura e alla larga ed efficace diffusione di entrambe nel rispetto di un’equa e corretta ripartizione delle risorse disponibili e delle regole previste dalle leggi, dall’Intesa e dallo Statuto.
Ritengo di concludere dieci anni di presidenza consegnando a chi mi succederà un’Unione più forte, più moderna, meglio organizzata, più rappresentativa di tutte le Comunità e più prestigiosa. Tutto ciò che abbiamo conquistato è il frutto di un durissimo lavoro svolto con senso di responsabilità dai Consiglieri, dai membri di Giunta e dai Rabbini, che colgo l’occasione per ringraziare sentitamente.
L’unico riconoscimento che pretendo per chi ha collaborato alla realizzazione di tutto ciò è il rispetto da parte di tutti.
Renzo Gattegna
Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Dialogo
Siamo sicuri che si possa mantenere “vivo e vitale l’ebraismo, preservando negli ebrei un’identità forte e una dignità tenace”, come hanno scritto alcuni giorni fa i cinque rabbini componenti del Consiglio dell’Assemblea Rabbinica Italiana, senza preoccuparsi del dialogo con l’esterno, sia esso la Chiesa, lo Stato, il mondo intorno? Siamo sicuri che attenzione all’interno e attenzione all’esterno si contrappongano, che l’una vada nella direzione opposta dell’altra, che la chiusura sia il modo migliore per rinsaldare l’identità? Nella nota che i cinque rabbini hanno voluto diffondere tramite questo notiziario e poi si sono affrettati a mettere in evidenza addirittura sui social network, aleggia, anche se non nominato, lo spettro dell’assimilazione. Si parla di cose dette all’epoca dell’Emancipazione, di “illusioni e tragiche disillusioni”. Per quanto difficile e complessa sia stata l’uscita dal ghetto degli ebrei italiani, nessuno all’epoca, o solo pochissimi, hanno davvero pensato che la cosa migliore fosse restare nel ghetto. E la Shoah nulla ha a che fare con “le illusioni dell’Emancipazione”, anche se non manca, anche tra pensatori di primo piano, chi lo ha pensato e scritto. Gli storici oggi contestano il concetto stesso di “assimilazione”, ne negano lo spessore e il significato in rapporto sia al mondo ebraico italiano che a quello europeo, ne riconducono l’origine alle polemiche successive all’emancipazione e a quelle sioniste contro la vita nella diaspora. Un’origine nella storia che va contestualizzata, quindi. Guardando alla nostra storia, quella degli ebrei in Italia, ho sempre visto il fiorire dell’identità e della cultura ebraica legati al dialogo, al rapporto con un mondo esterno a sua volta vivo e vitale. Quando questo non è successo, e ha prevalso il ghetto, è stato quando anche il mondo esterno stava diventando un ghetto, come nella Roma della fine del potere temporale dei papi. L’energia e la vitalità non possono venirci solo dallo studio dei testi, ma dal rapporto tra i testi e la vita, il mondo intorno a noi.
Ogni suggestione a chiudersi all’esterno porta, io credo, solo a spegnere anche la nostra vitalità di ebrei.
Anna Foa, storica
Valori
Certo, si vivrebbe tutti un po’ meglio se ci si convincesse che siamo tutti un po’ carenti, un po’ imperfetti. A volte merita fare un piccolo sforzo per ricordarlo a noi stessi.
La polemica scoppiata fra il presidente dell’UCEI e l’Assemblea Rabbinica riporta all’attenzione dell’ebraismo italiano il problema della strategia da perseguire per la migliore preservazione di sé (anche fisica) e dei propri valori. Un argomento non facile e che, come al solito, non consente accesso a facili verità. La scelta, il dilemma, è ancora una volta se accentuare la politica del dialogo con l’esterno o se concentrarsi sulla cultura educativa rivolta all’interno. Un argomento importante, che spesso si preferisce evitare per trattare altri temi privilegiati, come si è più volte sottolineato. È più facile parlare di Shoah, dove non ci si scontra, ed è più utile parlare di Israele, che procura più consenso e più immediata adesione emotiva. Su noi stessi è preferibile sorvolare, quasi avessimo paura di affrontare un presente del quale non ci sentiamo all’altezza, o che non sappiamo come affrontare.
Il presidente dell’UCEI apre le danze con l’accento sull’apertura. E, conoscendolo, non credo intendesse aprire una polemica. L’ARI risponde richiamando all’ordine. Entrambi fanno il loro mestiere. Il presidente ricorda la necessità di dialogare con le istituzioni e con il paese in senso lato, il rabbinato richiama al dovere del rafforzamento dell’identità attraverso l’educazione. È difficile contestare che si rappresenta degnamente se stessi solo quando si ha una forte e consapevole coscienza identitaria. Dove forse le nostre istituzioni non si capiscono, o non concordano, è nei possibili eccessi o nelle carenze impliciti nell’una e nell’altra posizione. Perché aprirsi all’altro e alle istituzioni è ineludibile, se non si vuole rimanere isolati, se si vuole affermare il diritto alla propria specifica identità, se ci si vuole far conoscere per quello che si è, se si vuole giocare un ruolo nella vita sociale, e magari politica (o anche no!). Purché, come accade talora, l’aprirsi non diventi vuota mostra di esistenza, ingombrante peso di una memoria esibita giorno dopo giorno senza interruzione, folklore da palcoscenico, quando non, peggio, da cabaret. Certamente non è a questo che pensava il presidente dell’UCEI, e lo conosco bene. Ma molti nelle nostre comunità è proprio questo che fanno, anche con le migliori intenzioni, attraverso la banalità di certi eventi culturali, la teatralità di certe presenze e di certi protagonismi d’accatto. Si va troppo spesso incontro al gusto di chi vuol conoscere un ebraismo superficiale, quello delle macchiette oleografiche, quando non quello del vittimismo per ottenere il dono della pietà altrui, di cui, personalmente, farei a meno volentieri. E si perde il nostro tempo a fare spettacolo da baraccone, alla ricerca dell’approvazione altrui.
L’ARI ha dunque la sua parte di ragione, anche se non proprio in relazione a quanto affermato nella sua relazione dal presidente dell’UCEI. Come si fa a negare che l’educazione sia essenziale per la preservazione dell’ebraismo italiano, anche prima del dialogo con l’esterno? In effetti, i due obiettivi dovrebbero essere perseguiti di pari passo. Dove tuttavia non ci si riconosce con le dichiarazioni dell’ARI e nella constatazione della realtà attuale. Ci si chiede cioè che cosa impedisca all’ARI, ossia al rabbinato italiano, di svolgere il suo compito educativo in modo appropriato ed efficace. Anche questo è un argomento su cui vado insistendo da una vita. Non si ha la sensazione che il rabbinato, e intendo i singoli rabbini, siano consapevoli della necessità di modernizzare il loro rapporto con i giovani e con la loro comunità in senso lato. Loro stessi intensificano spesso i loro rapporti con l’esterno, talora anche in benemerite presentazioni della visione ebraica su temi di attualità, talatra in presenze folkloriche che si potrebbero evitare, ma che offrono visibilità e foto sui giornali. Fra i rabbini e fra le loro attività manca un reale coordinamento. E, argomento non nuovo che meriterebbe ben altro spazio, manca ancora oggi una moderna ed esaustiva preparazione. Prova ne sia che certi percorsi rabbinici vanno a completarsi meritoriamente fuori d’Italia, per concludersi in una preparazione degna di questo nome. Quando questo non accade, l’ebraismo italiano si ritrova con il buon rabbino pastore di altri tempi, magari chiuso nel suo studio in attesa che qualcuno bussi alla sua porta, e lo disturbi.
La malattia dell’ebraismo italiano odierno si chiama, purtroppo, politica. Spesso contrapposizione politica, che deforma la visione dei nostri valori e ammorba la nostra vita e i nostri rapporti. Non ultimi i rapporti istituzionali interni, a danno unico delle comunità ebraiche. Tutte.
Dario Calimani, anglista
(7 giugno 2016)