Shlomi e il canto che sale dalle periferie
La rinascita dell’ebraico parlato, scrivevamo nel mese scorso, ha fatto sì che il sionismo fosse non soltanto una conquista politica ma, anzitutto, identitaria. Se il lavoro manuale emancipava l’ebreo diasporico da un modello sociale che, per differenti ragioni storiche, lo aveva caratterizzato nei secoli, l’esercizio quotidiano dell’ebraico, permetteva a tutti gli olim hadashim, che lavorassero nei kibbutzim o che formassero la nuova borghesia professionale, di costruire un’identità ebraica fuori dalle yeshivot, dalle spinte assimilazioniste e in opposizione anche a quella di lingua yiddish sostenuta dal Bund.
Cos’è stato, invece, il sionismo per l’ebraismo mediorientale e nordafricano? Superata la confusione tra sefarditi e mizrahim intendiamo concentrarci su questi ultimi. Si potrà rispondere che il sionismo ha rappresentato per loro l’emancipazione dalla condizione di dhimmi, prospettiva che tuttavia deve essere indagata in campo storico. Ciò che qui interessa domandare è, piuttosto, che cosa abbia rappresentato per loro l’ingresso nel processo di costruzione del ‘nuovo ebreo’, e, specularmente, cosa abbia significato per il sionismo fare i conti con l’ebraismo orientale. Il sionismo, come dice Yehoshua, non è un’ideologia, e ciò significa che l’emancipazione identitaria da esso veicolata è un fenomeno reale, dunque eterogeneo e necessariamente contraddittorio. Come noto le forze laburiste un tempo egemoni in Israele non hanno mai realmente conquistato la fiducia dei nuovi immigrati dai paesi islamici. È questo un punto di frattura non ancora sanato e che divide una sinistra laica, di marca per lo più ashkenazita, dalla popolazione mizrahi di estrazione prevalentemente popolare. Così i giovani telavivim progressisti e cosmopoliti, come noto, si sentono sempre più vicini ai coetanei di Berlino, mentre i giovani mizrahim si trovano, in senso stretto e lato, spinti verso la periferia. Pure la periferia mizrahi, proprio perché più lontana dagli standard occidentali, può riconciliare il sionismo con il Medio Oriente delle radici, divenendo condizione per un più naturale incontro tra concittadini ebrei e arabi. Questi termini potranno forse apparire ideologici. Alcune delle poesie di Shlomi Hatuka, cui lasceremo ora la parola, mostrano – al contrario – come tali questioni siano presenti nel vissuto quotidiano di un giovane israeliano di origine yemenita. Hatuka sente, letteralmente, sulla propria pelle, la portata concreta di tali problemi che da astratti e schematici si fanno quindi singolari ed esistenziali. L’israeliano ed ebreo Hatuka è anche il giovane yemenita dai tratti così differenti da quelli del coetaneo ashkenazita. La differenza non è rivendicata da Hatuka contro Israel ma, pur con note sofferte, graffianti, a volte provocatorie, per e in nome di Israel, il quale può scoprirsi forte in questa assenza di omogeneità, come già la tradizione, a partire dalla simbolica ruotante attorno alle 12 tribù, insegna.
Abbiamo letto la tua opera prima Mizrach yareach (Oriente luna), uscita di recente, ma prima di entrare nel merito del libro, vorremo sapere qualcosa di te.
Sono cresciuto in un ambiente osservante, da genitori yemeniti. Ho frequentato prevalentemente scuole religiose, per lo più di stampo sionista ashkenazita. Però quel modo di intendere la religione era molto diverso da quello che vivevo in casa. Gli yemeniti sono di solito molto osservanti ma con una grande naturalezza e in armonia con la vita, non è una religiosità dicotomica, fatta di sì e no, di bianco e nero. In un certo senso è difficile scorgere dove finisce il mondo e dove comincia la religione. Nelle scuole dove ho studiato, invece, l’approccio era differente, c’era il permesso e il vietato, e si può dire che tutto il mondo esterno fosse in un certo qual modo vietato, a partire dalla cultura laica. Da una parte sono stato affascinato da testi antichi e meravigliosi, la Torah e la Gemara, che ho amato profondamente e che hanno anche influenzato la mia scrittura, ma dall’altra parte è stata un’istruzione molto, molto problematica, intrisa di ideologia. Alla fine mi ha lasciato con più dubbi che risposte e ho semplicemente deciso che non era quella la mia via, anche se nel profondo mi vedo ancora come uno che cerca di capire il significato della Torah nell’ebraismo. Ho iniziato a scrivere molto giovane, influenzato dalle mie letture, ma era una scrittura acerba, di cui ho conservato solo poche poesie. Verso i vent’anni ho messo tutto questo un po’ da parte e ho semplicemente esperito la vita, come si suole dire. Sono tornato a scrivere a trent’anni. Insegno matematica e suono, il flauto traverso e il sassofono. Vivo a Tel Aviv.
Qual è il tuo rapporto con questa città e con le sue descrizioni canoniche, la Bolla, Medinat Tel Aviv, la città libera, laica, creativa, moderna. Abbiamo letto la tua poesia Blues in cui la descrivi come “il Vaticano degli ashkenaziti”. C’è qui una critica molto forte.
È una città pluralista, variegata, accogliente, a un’unica condizione: che tu sia ashkenazita. Puoi essere qualunque creatura sulla terra, se sei ashkenazita, Tel Aviv ti accoglierà. Se sei etiope, per esempio, non è la stessa cosa. Recentemente c’è stata una manifestazione degli etiopi a Tel Aviv. Era la prima volta che si vedevano in centro. Non è normale. Tel Aviv è una fortezza ashkenazita in una guerra di rappresentazione, di dominio culturale. Solo un po’ alla volta anche i mizrahim ci stano arrivando.
E Gerusalemme? Anche su Gerusalemme hai scritto una poesia durissima. Dove ti senti a casa in Israele?
È una buona domanda. Si può dire che i mizrahim si sentono a casa solo in alcuni posti, in alcuni quartieri specifici. E non è solo una questione di territorio, ma anche di media. Non sempre ci ritroviamo nella televisione, per esempio. Mi occupo molto di come veniamo rappresentati, o meglio, ignorati, in particolare nelle pubblicità. C’è una netta discriminazione a favore di bambini biondi e dalla pelle chiara, per esempio.
Hai ricevuto alcune critiche per aver dato maggiore risalto a politica e società che all’estetica nelle tue poesie.
La poesia deve essere estetica, senza dubbio, come ogni arte. Il fatto è che quando introduci una nuova forma, chi ti ha preceduto dirà che non capisci nulla di estetica. Ma la poesia, e del resto l’arte in generale, può essere politica e allo stesso tempo estetica. Il suo potenziale come strumento politico e sociale non le toglie niente. È paragonabile a una chitarra che dà un suono ai tuoi sentimenti. È uno strumento a disposizione dell’uomo. Anche la rivoluzione in Egitto è stata condotta in una certa misura dai poeti. È il modo più immediato per esprimere una protesta. E quando c’è nell’arte qualcosa che scuote le fondamenta, quando l’arte parla di politica, i governi si spaventano. Si preferisce che l’artista parli della propria interiorità.
Abbiamo notato nelle tue poesie una grande attenzione per il corpo. Pare una sorta di luogo di incontro tra le due istanze, quella politica e quella personale.
Mi fa piacere che lo abbiate notato. Sì, il corpo è un luogo d’incontro, sono io ed è il colore della mia pelle, è il luogo d’incontro tra me e il politico, la mia vita personale da un lato, la mia identità dall’altro. Il corpo mi riporta al luogo fisico, concreto, è ciò che fa da barriera in tutte le frizioni, gli incontri con la realtà, sia sul piano personale che politico. Non ho mai lottato contro idee astratte ma con la realtà concreta.
Oriente, la prima parte del titolo, significa anche lingua araba, e gli arabi in generale. Affiorano qui e là occorrenze di questo argomento nel tuo libro in vari contesti. Qual è il tuo rapporto con la lingua araba?
Come è noto si è creata una profonda frattura tra i mizrahim e la cultura araba. Un tempo erano parte di essa, i miei avi sono vissuti in Yemen per duemila anni. Anche se la religione faceva sì che conservassero la loro peculiarità ebraica, erano immersi dalla testa ai piedi in una cultura araba, e io sono yemenita non meno di quanto sia ebreo. È difficile da spiegare, ma la mia mentalità è più vicina a quella araba che a quella ashkenazita, e spesso ci sono confusioni d’identità. Avete parlato di corpo, il corpo è il luogo in cui ci confondiamo gli uni con gli altri, mentre la lingua è ciò che ci fa capire chi è chi. Il corpo non hanno potuto cambiarcelo, ma la lingua ci è stata tolta. Tutti i genitori di quelli della mia generazione parlavano yemenita, marocchino, persiano, ma noi non siamo più in grado. E non è una questione di nostalgia, penso semplicemente che la lingua sia uno strumento fondamentale per dialogare con l’altro, e quindi, quando viene a mancare, un ostacolo enorme che divide le persone. Abbiamo molto in comune con gli arabi, ma non siamo più in grado di esprimerlo, e questo fatto in Israele ha bruciato molte possibilità di relazione tra mizrahim e arabi. Nelle mie poesie l’argomento ritorna varie volte, perché qui c’è un bagno di sangue che dura da decine di anni tra due popoli che non riescono a raggiungere una soluzione. La mia scelta di scrivere sul frontespizio il nome e il titolo anche in arabo mi è servita a ricordare a me stesso lo spazio in cui vivo, che è il Medio Oriente, non l’Europa. Scriverlo in inglese, come si usa in genere, sarebbe stato un modo elegante di fuggire.
Dalle tue poesie emerge un disagio nei confronti della sinistra israeliana.
Una parte della nostra critica nei confronti della sinistra è che si trova in una sorta di contraddizione, da un lato parla di uguaglianza, dall’altro esercita un’egemonia. Nelle organizzazioni della sinistra lavorano per lo più ashkenaziti, quando noi mizrahim potremmo essere una forza molto significativa nella creazione di una coesistenza, ma gli ashkenaziti non sono disposti né a rinunciare alla loro supremazia, né a riconoscere i torti che lo Stato ci ha fatto. Mi riferisco per esempio al famoso episodio dei bambini yemeniti rapiti negli anni ’50 e dati in adozione, ma non solo a questo. Ci sono gap notevoli nell’istruzione, c’è un avviamento a percorsi di studi differenti. Chi parla di uguaglianza dovrebbe consideralo prioritario, ma per lo più la sinistra si gira dall’altra parte, fa finta di non vedere.
Difficile per me personalmente, e per i mizrahim in generale, sentirsi parte di questa sinistra.
E per quanto riguarda la destra? Sono più pronti a dare ascolto alle istanze dei mizrahim?
C’è un fenomeno paradossale. Qualche tempo fa un sondaggio ha mostrato che la maggior parte dei mizrahim ha idee di sinistra ma è disgustata dai partiti che la rappresentano. Tenete presente, a titolo di esempio, che il rabbino che ha permesso di scambiare territori in cambio di pace era Rav Ovadia Yossef. Molti mizrahim, per come li vedo, sono dei moderati. Il sionismo religioso di stampo ashkenazita delle scuole in cui ho studiato era molto attivo sul fronte della fondazione di nuovi insediamenti, mentre noi mizrahim tendenzialmente viviamo la nostra vita senza cercare di “affrettare i tempi messianici”. È una differenza significativa. E tuttavia, la destra è stata più capace di creare un contatto con i mizrahim, perché è riuscita a trasformarli in classe media, ha dato loro ciò di cui avevano bisogno, lavoro, per esempio. C’è anche la capacità di parlare a certi sentimenti delle persone, come la speranza, la paura, che tutti proviamo, e la destra sa parlare questa lingua meglio della sinistra.
Il tuo libro non è solo politico, nella seconda parte, intitolata Luna, tratti temi più intimisti. Ci vuoi spiegare perché hai scelto di chiamarla così, che cosa simboleggia per te?
Il piano politico è importante, e da parte mia sentito con grande urgenza, ma poi c’è quello personale e umano che non è certo meno ampio, e la luna è il simbolo che ho scelto per esprimerlo. La luna è molto umana, cambia di continuo, non è come il sole che è sempre rotondo, buono e bello. La luna a volte è piena, a volte apparentemente non c’è affatto, e a ciascuno di noi può capitare di sentirsi esistente in questo mondo, ma al tempo stesso invisibile. La luna appartiene al campo dell’immaginazione. Secondo una teoria quando la luce si attenua l’immaginazione diventa più attiva. La luna è il campo dei pensieri e dei sogni a cui anche noi apparteniamo. La vita può apparire molto chiara, ma è in gran parte influenzata da elementi invisibili, desideri di cui non siamo coscienti, che si trovano nell’oscurità. Secondo un famoso midrash la luna è stata creata perfetta come il sole e poi Dio ha deciso di diminuirne la luce. Proprio come un bambino, che nasce perfetto, ma poi la vita può intaccarlo. Non sono certo il primo a subire il fascino di questo simbolo, mi sento come un musicista che prende una frase e la arrangia in modi diversi: è un gioco artistico. E la luna simboleggia anche i mizrahim, naturalmente, rispetto al sole ashkenazita che ha la preminenza, la luna si aggira di notte come un nomade o un mendicante che riceva la sua luce da un’altra fonte.
Oltre alla Bibbia e al Talmud, sui quali sei stato educato, quali sono altre tue fonti importanti?
Le fonti tradizionali sono semplicemente gigantesche dal punto di vista letterario e mai abbastanza sfruttate per via della forte valenza politica che hanno in questo momento. Un’altra influenza è Abba Shalom Shabazi, il più grande dei poeti yemeniti, vissuto nel XVII secolo. La sua è una poesia che tende costantemente al piacere, all’armonia. Crea tensione, mai troppa, e poi la scioglie, ama la sensualità delle parole, si potrebbe dire che il Cantico sia il suo archetipo. Gli yemeniti amavano molto scrivere, preferibilmente in versi. In questo senso sono figlio di una grande tradizione. Ma non disdegno i poeti contemporanei come Erez Biton, Darwish, Pessoa, e, perché no, anche il rap americano, di cui apprezzo molto il ritmo.
La letteratura è stata fondamentale per costruire l’identità ebraica laica, in particolare a partire dalla Haskalah. Anche i pionieri cercarono di costruire una nuova letteratura e identità mettendo da parte il Talmud. Che cose ne pensi, data la sua importanza nella tua poesia?
Sono molto dispiaciuto, perché quando leggi la Bibbia o la Gemara, vi scopri soprattutto uomini. Persone così particolari, strane, di carne e sangue, così umane, piene di conflitti e comportamenti a volte immorali, come tutti siamo. Bisognerebbe lasciarsene impressionare al di là dei nostri pregiudizi. Il problema è che questi testi sono il monopolio perlopiù del pubblico religioso, che è l’unico ad averne fornito un’interpretazione e un significato.
Quindi secondo te è possibile costruire un’identità laica a partire dalle fonti.
Assolutamente sì. Ma ci deve essere anche un processo di tipo politico che renda possibile ai laici in Israele di creare questo rapporto alle fonti senza timore di essere sottoposti a una costrizione religiosa. Studiare la Gemara dovrebbe essere vissuto come parte della cultura ebraica. E’ un testo meraviglioso, intelligente, ironico, divertente. E c’è il lato etico, che non è necessariamente religioso e che non può non essere importante anche per i laici. A mio parere non c’è allo stato attuale una corrente abbastanza forte di rilettura laica delle fonti.
Anna Linda Callow e Cosimo Nicolini Coen
(3 giugno 2016)
Blues
Tel Aviv è il Vaticano degli ashkenazim,
Peres ne è il Papa
e Dio è
un vitello da latte
con mele e miele,
in un bistrot
o in una brasserie –
le prenotazione di un tavolo è la preghiera del borghese.
I programmi televisivi sono i loro banchi al mercato;
i libri,
le loro foglie di fico.
L’urlo di pace
che echeggia stonato è destinato
a silenziare i muti pidocchi dei timori
e i grugniti per la giustizia
dei mizrahim, delle minoranze, dei russi e degli etiopi
trasparenti in periferia.
E di notte,
i loro segreti si aprono
come un ventaglio di carte da gioco
e sui palcoscenici dei sogni
che si susseguono
i mizrahim cantano
nelle piantagioni di cotone
e nelle officine,
sulle tribune,
nelle fogne.
Noi siamo i corvi
portiamo come una pinza nelle nostre bocche
come un pugno nei nostri cuori
scintille di fuoco dal sud
dal Gehinom
ai giardini di Eden,
alle rive del Kinneret
al Bauhaus.
Come glielo spiegheremo:
l’odio è un’arma da fuoco ˗
nella nostra storia sono scritte ancora guerre;
capiranno mai,
che quando eravamo bimbi
i loro occhi erano i nostri vagoni ferroviari.
Colore del corpo
Dentro di me sorge il sole
da nessun luogo
e il sogno è una luna
morente prima che
la guardi da sveglio.
Dentro me stesso cresco
come un albero:
i pensieri sono foglie
che cadono,
i sogni radici
che si dispiegano nel nulla.
Le miei ciglia sono scure,
le pupille nere,
il mio cuore è rosso e la pelle bruna,
non ho trovato alcunché di bianco
forse in realtà
soltanto lo scheletro
nascosto.
Poesie di Shlomi Hatuka, traduzione a cura di Anna Linda Callow e Cosimo Nicolini Coen