…valori

Certo, si vivrebbe tutti un po’ meglio se ci si convincesse che siamo tutti un po’ carenti, un po’ imperfetti. A volte merita fare un piccolo sforzo per ricordarlo a noi stessi.
La polemica scoppiata fra il presidente dell’UCEI e l’Assemblea Rabbinica riporta all’attenzione dell’ebraismo italiano il problema della strategia da perseguire per la migliore preservazione di sé (anche fisica) e dei propri valori. Un argomento non facile e che, come al solito, non consente accesso a facili verità. La scelta, il dilemma, è ancora una volta se accentuare la politica del dialogo con l’esterno o se concentrarsi sulla cultura educativa rivolta all’interno. Un argomento importante, che spesso si preferisce evitare per trattare altri temi privilegiati, come si è più volte sottolineato. È più facile parlare di Shoah, dove non ci si scontra, ed è più utile parlare di Israele, che procura più consenso e più immediata adesione emotiva. Su noi stessi è preferibile sorvolare, quasi avessimo paura di affrontare un presente del quale non ci sentiamo all’altezza, o che non sappiamo come affrontare.
Il presidente dell’UCEI apre le danze con l’accento sull’apertura. E, conoscendolo, non credo intendesse aprire una polemica. L’ARI risponde richiamando all’ordine. Entrambi fanno il loro mestiere. Il presidente ricorda la necessità di dialogare con le istituzioni e con il paese in senso lato, il rabbinato richiama al dovere del rafforzamento dell’identità attraverso l’educazione. È difficile contestare che si rappresenta degnamente se stessi solo quando si ha una forte e consapevole coscienza identitaria. Dove forse le nostre istituzioni non si capiscono, o non concordano, è nei possibili eccessi o nelle carenze impliciti nell’una e nell’altra posizione. Perché aprirsi all’altro e alle istituzioni è ineludibile, se non si vuole rimanere isolati, se si vuole affermare il diritto alla propria specifica identità, se ci si vuole far conoscere per quello che si è, se si vuole giocare un ruolo nella vita sociale, e magari politica (o anche no!). Purché, come accade talora, l’aprirsi non diventi vuota mostra di esistenza, ingombrante peso di una memoria esibita giorno dopo giorno senza interruzione, folklore da palcoscenico, quando non, peggio, da cabaret. Certamente non è a questo che pensava il presidente dell’UCEI, e lo conosco bene. Ma molti nelle nostre comunità è proprio questo che fanno, anche con le migliori intenzioni, attraverso la banalità di certi eventi culturali, la teatralità di certe presenze e di certi protagonismi d’accatto. Si va troppo spesso incontro al gusto di chi vuol conoscere un ebraismo superficiale, quello delle macchiette oleografiche, quando non quello del vittimismo per ottenere il dono della pietà altrui, di cui, personalmente, farei a meno volentieri. E si perde il nostro tempo a fare spettacolo da baraccone, alla ricerca dell’approvazione altrui.
L’ARI ha dunque la sua parte di ragione, anche se non proprio in relazione a quanto affermato nella sua relazione dal presidente dell’UCEI. Come si fa a negare che l’educazione sia essenziale per la preservazione dell’ebraismo italiano, anche prima del dialogo con l’esterno? In effetti, i due obiettivi dovrebbero essere perseguiti di pari passo. Dove tuttavia non ci si riconosce con le dichiarazioni dell’ARI e nella constatazione della realtà attuale. Ci si chiede cioè che cosa impedisca all’ARI, ossia al rabbinato italiano, di svolgere il suo compito educativo in modo appropriato ed efficace. Anche questo è un argomento su cui vado insistendo da una vita. Non si ha la sensazione che il rabbinato, e intendo i singoli rabbini, siano consapevoli della necessità di modernizzare il loro rapporto con i giovani e con la loro comunità in senso lato. Loro stessi intensificano spesso i loro rapporti con l’esterno, talora anche in benemerite presentazioni della visione ebraica su temi di attualità, talatra in presenze folkloriche che si potrebbero evitare, ma che offrono visibilità e foto sui giornali. Fra i rabbini e fra le loro attività manca un reale coordinamento. E, argomento non nuovo che meriterebbe ben altro spazio, manca ancora oggi una moderna ed esaustiva preparazione. Prova ne sia che certi percorsi rabbinici vanno a completarsi meritoriamente fuori d’Italia, per concludersi in una preparazione degna di questo nome. Quando questo non accade, l’ebraismo italiano si ritrova con il buon rabbino pastore di altri tempi, magari chiuso nel suo studio in attesa che qualcuno bussi alla sua porta, e lo disturbi.
La malattia dell’ebraismo italiano odierno si chiama, purtroppo, politica. Spesso contrapposizione politica, che deforma la visione dei nostri valori e ammorba la nostra vita e i nostri rapporti. Non ultimi i rapporti istituzionali interni, a danno unico delle comunità ebraiche. Tutte.

Dario Calimani, Università di Venezia

(7 giugno 2016)