Sogno

Sara Valentina Di Palma La notte, complice il caldo, sogno. (Sì lo so che per la gran parte del popolo italiano sembra autunno più che primavera incipiente, ma vuoi i chili di troppo, vuoi l’impaccio corporeo, mi sento libera di sostenere che è già molto, troppo caldo). Sono sogni pesanti e gravi, caotici e confusi, di lotta e resistenza, in cui però sia pur con grande sforzo alla fine il bene trionfa, o quantomeno riesce a fermare il male. Questi sogni, soprattutto se si insinuano nel sonno dell’albeggio, restano al mio risveglio impigliati nelle ciglia e lasciano a pensare. Interpretarli razionalizzandoli? Ho più banalmente mangiato troppo la sera prima, o troppo a ridosso del pasto mi sono coricata? Chissà.
La scorsa notte, oltre a fuggire gatti assassini (cosa curiosa dato il mio amore per questi felini), c’era un uomo il quale in lacrime mi diceva: voglio vivere cercando di meritarlo.
Gran bella verità, abbastanza simile al concetto espresso nell’epilogo di Salvate il soldato Ryan, celebre film di guerra dall’incipit decisamente espressionista e che per questa ragione, confesso, avendo qualche problema la gestione visiva della violenza, non ho mai potuto vedere interamente. Ma se ricordate, il morente capitano Miller (alias Tom Hanks) inviato a salvare il soldato Ryan perché unico figlio rimasto in vita ad una donna che ha perso gli altri tre in combattimento nel corso della Seconda guerra mondiale, intima al giovane Ryan, che andrà salvo a casa: meritatelo!, e nella scena conclusiva l’ormai anziano sopravvissuto in visita alla tomba di Miller rammenta: “ho cercato di vivere la mia vita nel migliore dei modi, spero che sia bastato”. Sebbene la chiave interpretativa del film sia escatologica e rimandi al senso della vita condotta dal soldato in rapporto al sacrificio di Miller e dei suoi uomini periti per salvarlo (e dunque più in generale, ci interroghi se il sacrificio americano per trarci d’impiccio da Hitler sia valso la pena), mi prendo la licenza poetica di interpretarlo diversamente. Ovvero, rapportandolo al microcosmo quotidiano di noi esseri per i quali “oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà” – come ebbe a dire Aldo Moro nel suo discorso ai parlamentari della Democrazia Cristiana il 28 febbraio 1978, nel tentativo di promuovere l’ingresso del Partito Comunista nel Governo di solidarietà nazionale.
Qualcosa di simile deve essersi chiesto Thomas Mann nel corso dell’esilio svizzero, quando si trovò a dover scegliere tra il silenzio o l’aperta condanna del regime nazista. Vero è che già all’inizio del febbraio 1933 Mann si era esposto all’Università di Monaco in una conferenza sull’amato Wagner, in cui dopo le lodi per il compositore e dietro di lui gli altrettanto stimati Schopenhauer e Nietzsche, lo scrittore era passato a delineare i rapporti tra Wagner ed il germanesimo, leggendone l’opera in senso opposto alla strumentalizzazione hitleriana ed inserendola nel contesto europeo. A Mann, poi all’estero per lavoro, era stato suggerito di non rientrare in patria, ma ben altro era decidere di prendere una posizione pubblica contro il nazismo. Prova a calarsi nei panni dello scrittore l’avvocato Britta Böhler, la quale prima di dedicarsi alla narrativa è stata parlamentare verde olandese e soprattutto avvocato esperto in diritto penale internazionale e diritti umani, ed ora con La decisione racconta i tre giorni di inizio febbraio 1936, in cui Thomas Mann fu lacerato dal dubbio se far pubblicare o meno dalla Neue Zürcher Zeitung la lettera aperta di condanna al nazionalsocialismo, poi effettivamente uscita il 3 febbraio, in cui tra le altre cose lo scrittore denunciava che “L’odio tedesco per gli ebrei, o meglio l’odio per gli ebrei da parte di chi detiene il potere in Germania […] è il tentativo di scrollarsi di dosso i legami di civiltà”. Lontana è la Germania che Mann ama, quella di Goethe per intenderci, e criticare apertamente il nazismo può avvenire, dopo laceranti dilemmi, solo dopo aver compreso che una cosa è la patria di civiltà che lo scrittore ama, ben altra quello che il regime hitleriano ne sta facendo – nonostante l’inquietudine di aver tradito il proprio Paese allontanandosene, e di avergli detto addio per sempre, non lo abbandonerà di fatto mai.
Curiosamente direi, se il caso esistesse, Mann stava lavorando proprio in quegli anni alla tetralogia Joseph und seine Brüder, e proprio nel 1936 uscirà Joseph in Ägypten (Giuseppe in Egitto). Uno straniero esule in terra straniera, che scrive di un altro esule fuor di patria, il quale ha l’ingrato compito di essere Zafnat Paneah (Bereshit 41:45), come Josef viene chiamato da Parò in Egitto: colui che, ci dice Rashi, svela le cose nascoste, e lo fa sia interpretando i sogni, sia, credo, rimanendo coerente con il proprio essere ebreo, e dunque con il proprio essere.
Del resto l’avvocato Böhler, intervistata sul New York Times lo scorso 16 dicembre, rende conto della scelta non tanto casuale di dedicarsi alla letteratura e ad un così particolare argomento: impegnata in processi (anche celebri, come la difesa del leader curdo Öcalan) in cui singoli individui si trovano a fronteggiare gli abusi di potere di uno Stato, in Mann la Böhler ha forse ritrovato l’impotenza del singolo di fronte alla violenza istituzionalizzata, come anche la difficoltà di prendere una posizione, ed insieme la necessità di farlo per mantenersi umani. Fosse vissuta sotto il nazismo, si chiede l’autrice, “Avrei firmato la dichiarazione di non ebraicità? Avrei avuto il coraggio di continuare a frequentare un negozio ebraico?”. Se ti poni domande su questo, e se lo fai fare a Thomas Mann, discorro mentalmente con lei, probabilmente avresti trovato il coraggio, che non è essere di per sé eroici, ma affrontare con coerenza le scelte che ci troviamo davanti e le prove cui siamo sottoposti.
E tu, uomo del sogno, se già ti interroghi su come meritare quello che hai, a mio avviso sei sulla strada giusta, quella che rende vivo e reale e non una formula stereotipata il מוֹדֶה אֲנִי לְפָנֶיךָ, il mio Modà anì lefanecha, ,”Ti ringrazio, Re vivente ed eterno”, perché donandoci una nuova giornata ci dai la possibilità di interrogarci, di cercare la coerenza con i nostri princìpi morali, di non accettare compromessi etici, in altre parole ci doni la capacità di prendere posizione e di cercare di meritarci quello che abbiamo e quello cui aspiriamo.

Sara Valentina Di Palma

(9 giugno 2016)