VERSO SHAVUOT I figli. Vicini o lontani?
Uno degli aspetti più inquietanti che trova oggi chiunque si occupi di pedagogia è la parità dei diritti invocata sistematicamente dai più giovani nei confronti di chi è più grande di loro. Figli o allievi che siano, i bambini pretendono di ricambiare genitori ed educatori con le stesse limitazioni ed imposizioni di cui si ritengono perlopiù vittime ingiustificate. Non si rendono conto, naturalmente, che la diversa esperienza di vita e il diverso grado di responsabilità sono ciò che fanno la musica e, in una parola, l’autorità. Cresciuti in una società di stampo commerciale, egualitaria all’estremo, dove tutti sono potenziali complici, essi considerano chiunque entri in relazione con loro un pari grado con il quale è lecito fare, e al quale è lecito chiedere, qualsiasi cosa. Nel testo dei Dieci Comandamenti vi è una distinzione linguistica evidente fra i primi due e i successivi. Nei primi due il S.B. si presenta in prima persona ai suoi ascoltatori/lettori. Terminata questa presentazione di Sé in presa diretta, con il terzo Comandamento il Buon D. muta registro e continua la conversazione come per interposta persona: “Non pronunciare il Nome di H. tuo D. invano, perché H. non lascerebbe impunito chiunque pronunci il Suo Nome invano…”. I dotti commentatori sottolineano che si tratta dell’alternanza di due caratteri compresenti nella Divinità: l’immanenza, per cui D. si fa percepire come vicino all’Uomo e la trascendenza, che segna piuttosto la distanza. È la stessa duplicità che regola il testo di molte nostre Berakhòt, in cui iniziamo dando a D. del “tu” (Benedetto Tu H. D. nostro Re del mondo…) per terminare rivolgendoci a Lui con il “lei” (… che ci ha santificato con le Sue Mitzwòt; …che ci ha prescelto fra tutti i popoli, …che ci ha redento, ecc.). C’è sempre molto da imparare nella Torah. Nel promulgarci il Decalogo, la “costituzione” del popolo d’Israel, il S.B. ci dà una lezione di autorità su come far valere la Legge. Se volete l’autorità – è il Suo messaggio – è necessario imparare a dosare entrambi gli atteggiamenti, proprio come Egli in persona ha fatto sul Monte Sinai. Sapere essere accanto agli altri e mantenere le debite distanze nello stesso tempo, in modo da evitare le due estreme conseguenze dell’eccessivo distacco da un lato, che ci fa sentire irraggiungibili, e l’eccessiva confidenza dall’altro, che confonde i ruoli e perciò incrina il rapporto. Nei Dieci Comandamenti H. mostra di mettere l’accento sulla vicinanza nelle prime due battute, onde conquistarsi la fiducia del popolo. Ma una volta stretta questa forma di relazione, si passa ad un tono più autorevole, onde conquistarsi l’obbedienza. E il popolo? Un famoso Midrash anticipa a questo passaggio il momento che la Torah descrive solo al termine del Decalogo, allorché i Figli d’Israel furono presi da timore e si rivolsero a Mosheh pregandolo di far da tramite con la Divinità: “Parla tu con noi, e ti staremo ad ascoltare. Non vogliamo che ci parli D., affinché non moriamo”. A partire dal terzo Comandamento sentiamo non più la voce di D., bensì quella di Mosheh Rabbenu. Udire direttamente la voce di D., sì in tutta la Sua vicinanza, ma proprio per questo in tutta la Sua potenza, sarebbe costato troppo. Furono in definitiva i soggetti stessi a richiedere una forma di comunicazione mediata, nella fattispecie, fra D. e l’Uomo. D., tutt’altro che risentito, approvò la scelta: “hanno ragione in tutto ciò che hanno detto. Magari avessero sempre nel cuore la stessa intenzione di temerMi” (Dev. 5, 25-26). Finiranno per essere i bambini stessi, un giorno, a rendersi conto che l’eguaglianza indiscriminata non è una merce conveniente. La stessa circolazione stradale è spesso regolata da sensi unici, cui corrispondono sensi vietati. Nell’interesse di tutti.
Alberto Moshe Somekh, rabbino
Pagine Ebraiche, giugno 2011