Il Mein Kampf in edicola – “Come banalizzare la Memoria”

Schermata 2016-06-14 alle 14.39.11Meglio essere chiari da subito, senza tanti giri di parole: l’operazione editoriale alla quale il Giornale ha dato corso, pubblicando la versione anastatica del Mein Kampf di Adolf Hitler uscita in Italia nel 1937 da Bompiani, costituisce un ulteriore passo nello sdoganamento dell’inaccettabile. Chiarezza per chiarezza, va precisato che chi sdogana non è detto che sia in assoluto accordo con la “merce” che mette con calcolata disinvoltura a disposizione di una vasta platea. Ma fa senz’altro in modo che quest’ultima ne possa fruire senza i vincoli e le cautele, anche e soprattutto di ordine morale e civile, prima ancora che politico, che si debbono accompagnare quando si tratta di materia esplosiva. Il tedioso, verboso, mediocre non meno che criminale volume del dittatore tedesco costituisce per eccellenza il testo principale di una pedagogia nera che ha avuto, insieme ai suoi protagonisti, e alle tragedie che ha innescato e giustificato, un lungo corso per tutto il Novecento, con interpreti, apologeti e zelanti sostenitori. Nel passato, ed in parte, a tutt’oggi. Proprio per questo, al netto di qualsiasi vocazione alla censura, inutile prima ancora che persecutoria, nel rendere disponibile al grande pubblico un groviglio di parole così lucidamente deliranti occorre, nel medesimo tempo, fornire gli strumenti perché esse siano comprese, ovvero contestualizzate. Del pari a opere di ben altro tenore e di assoluta dignità, anche il Mein Kampf, che ha comunque consegnato all’incoscienza e all’irresponsabilità un’intera epoca storica, richiede, per essere compreso e giudicato nella sua natura di icona del male, di venire prima di tutto analizzato criticamente. Non si tratta di un lavoro per soli specialisti, chiusi nella polvere delle loro stanze, ma di un esercizio di comprensione e condivisione che richiama comunque competenze specialistiche. I luoghi, i soggetti ma anche e soprattutto i modi con cui si svolge questo compito, fanno la differenza rispetto ad un esercizio di falsa democrazia della comunicazione. In realtà, l’iniziativa di proporre alle edicole di tutto il Paese il manifesto politico di Hitler non risponde ad alcuna esigenza di conoscenza, se con tale termine ci si rifà alla cognizione critica e analitica, prima ancora che polemica, delle radici di un’ideologia assassina. Semmai, invece, giocando su più piani distinti, interseca da subito le occorrenze editoriali, che a loro volta rimandano alle necessità di cassa, con una tanto facile e disinvolta quanto irresponsabile vocazione al clamore politico. Assumendo gli abiti, molto stretti, di chi intenderebbe rendere edotta la collettività dei pericoli insiti in un testo “storico” (in che senso?) spargendo una “sapienza” che deriverebbe in automatico dalla sua illimitata disponibilità materiale nello spazio pubblico, si finge che chiunque possa comprendere appieno e pressoché immediatamente il senso della tragedia che prefigura.
L’”introduzione storica e critica” (tredici pagine) di Francesco Perfetti nulla toglie, o aggiunge, a tale stato di cose. Anche quando afferma, ad un certo punto, che “solo una lettura sistematica effettuata con spirito critico può operare da contravveleno nei confronti di una costruzione teorica demagogica e tuttora pericolosa e, al tempo stesso, può consentire una spiegazione storica degli avvenimenti drammatici che hanno insanguinato l’ultimo scorcio della prima metà del secolo…”. In Germania, da gennaio è disponibile la versione critica del Mein Kampf, con migliaia di note e glosse che accompagnano il lettore, anche quello professionale, verso la meta della conoscenza senza scorciatoie illusorie e fallaci. Va allora ricordato che l’equazione tra fruizione senza filtri di parole e pensieri criminali e costruzione del senso delle cose non è prerogativa della formazione del giudizio bensì del rinnovarsi dei pregiudizi. Il risultato ultimo, infatti, è una sorta di populismo editoriale che usa le libertà di tutti per eroderne i significati e gli spazi, sacrificati sull’altare della licenza. Difficilmente dalla diffusione, volutamente improvvida e senza le precauzioni del caso, del Mein Kampf deriverà necessariamente un incremento del numero di neonazisti in Italia. Non si diventa nazisti leggendo un’opera indigeribile; semmai la si tenta di leggere avendo già maturato certi convincimenti. Non è peraltro questo l’obiettivo di chi lo ha pubblicato e distribuito in tutte le edicole. Semmai quel che ne consegue da subito è uno spostamento della soglia della lettura critica verso il basso, sostituita dalla combinazione tra gusto per la polemica permanente e provocazione ossessiva: la consapevolezza del limite, che è uno dei paletti fondamentali della cittadinanza democratica, la quale non si fonda sulla forza della prevaricazione ma sull’impegno alla mediazione, non ottiene altro da questa operazione che non sia la sua negazione. Sembra un paradosso, dal momento che ad esergo dell’iniziativa editoriale c’è la pelosa e sospetta invocazione del “diritto a conoscere il passato”. Ma acquisire e praticare tale diritto implica il comprendere come vada trattata una fonte, ossia come debbano essere intesi e rielaborati i dati in essa contenuti. Non di meno, occorre che il passato medesimo, per divenire oggetto di un chiaro, nitido e incontrovertibile giudizio di valore, sia letto alla luce della comprensione dei dati di fatto. Che vanno identificati, messi in relazione, interconnessi e così via. Mai sarà sufficiente il costante richiamarsi a queste necessarie cautele. Il populismo azzera qualsiasi profondità di valutazione, qualunque esercizio di merito che non sia immediatamente riconducibile, in forma strumentalizzata, alle passioni del presente. Non vuole conoscere, intende esclusivamente bersagliare qualcosa o qualcuno per rivendicare un presunto diritto alla rivalsa. Ed in questo, l’astiosità e il livore che attraversano il libro del dittatore tedesco ben raccolgono non solo una parte dello spirito del passato ma anche delle inquietudini del presente, laddove però esse non si prestano ad alcun ragionamento ma solo alla legittimazione sopraffazione. Quel manifesto dell’odio, offerto come gadget, ad accompagnamento alla prima parte di un altro testo, quello tanto celebre quanto oramai datato di William Shirer, è un mattone che precipita ancora una volta sulla testa delle persone. La cifra ultima dell’intera operazione editoriale è la banalizzazione, un peccato mortale nelle nostre società della “conoscenza”, dove invece molto si dovrebbe sapere per meglio capire ed agire con consapevolezza. Banalizzarne i contenuti attraverso la loro volgarizzazione, presentata come una manifestazione di “democrazia del pensiero”; banalizzarne la fruizione, poiché, se ne può stare certi, la maggioranza di coloro che lo hanno acquisito non si spingeranno oltre le prime pagine, disarmati dalla natura involuta delle argomentazioni che contiene ma gratificati dall’avere nella propria casa un testo “proibito”, “maledetto” e come tale desiderabile. Due meccanismi, questi ultimi, che fingendo di volere fare capire in realtà intorbidano ancora di più le acque dell’informazione e della navigazione di un’opinione pubblica libera da ipoteche pregiudiziose.

Claudio Vercelli

(14 giugno 2016)