Qui Roma – Ebrei di Libia e delle colonie
Un viaggio nelle memorie
Come sono stati vissuti gli anni del fascismo nelle colonie, luoghi che geograficamente e culturalmente sono lontani dall’Italia, ma che di fatto erano italiani? Ma soprattutto, come vengono ricordati – e dunque raccontati – da chi li ha vissuti? Poiché se “la memoria è un meccanismo complesso, in cui entrano in gioco meccanismi di psicologia clinica e storia, antropologia e sociologia” questo caso già di per sé composito non fa eccezione, come ha osservato David Meghnagi, direttore direttore del Master in didattica della Shoah dell’Università di Roma Tre. L’ateneo ha ospitato nelle giornate di ieri e di oggi il convegno internazionale intitolato Italy and Italian Jews in Colonial Territories During WWII: Libya, Dodecanese and East Africa (“L’Italia e gli ebrei italiani nei territori coloniali durante la Seconda guerra mondiale: Libia, Dodecanneso e Africa Orientale”), organizzato insieme al Documentation Center of North African Jewry During WWII Ben Zvi Institute, alla World Organization of Libyan Jews e al Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea. Ad aprire la due giorni insieme a Meghnagi, i saluti di Haim Sadoun, direttore del Ben Zvi Institute, dell’ambasciatore israeliano a Roma Naor Gilon, del direttore uscente del CDEC Michele Sarfatti e del rettore di Roma Tre Mario Panizza. Tra i moderatori delle varie sessioni, anche la Consigliera dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e storica del CDEC Liliana Picciotto.
Il convegno è dunque iniziato entrando subito nel vivo con una testimonianza di prima mano, quella inedita di Roberto Nunes Vais, ebreo tripolino autore di un diario manoscritto relativo al trentennio tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta. A leggerne la parte riguardante gli anni 1941-1943 è stato suo figlio Dan Nunes Vais, mentre a sottolinearne il valore
che consiste nel “rispecchiare i sentimenti e gli aspetti materiali di questo terzo anno di guerra”, come scrive Vais, ma “va ben oltre quello documentale” è stata la storica dell’Università di Bristol Barbara Spadaro.
Particolarmente rilevante è anche, a suo dire, il fatto che il diario sia redatto in italiano, poiché “le varie lingue parlate in quelle regioni sono spia dei molti intrecci storici e culturali”. Lo rileva anche l’intervento dello storico dell’Africa dell’Università di Cagliari Filippo Petrucci, il quale sottolinea che “per secoli le comunità ebraiche hanno vissuto in tutto il Nord Africa, un mondo dove diverse storie di scambi, relazioni, violenza e crescita sono coesistite, un mondo che non esiste più”. Per questo è fondamentale il ruolo dei testimoni nel raccontarlo, specialmente in un momento in cui interviene anche il rapporto con un’altra cultura, quella israeliana. Il linguista dell’Università di Haifa Joseph Chetrit ha analizzato infatti i modi adottati ad esempio dagli ebrei libici e dai loro discendenti in Israele per costruire e mantenere la loro memoria comune e forgiare la loro identità moderna, un processo comune a molte comunità della diaspora nella loro integrazione con la società di Israele. Esisterebbero due strategie: la prima consiste nel “fare emergere usi che connettano l’esperienza ebraica in Libia con quella nazionale israeliana”, mentre la seconda riguarda la “gestione del loro personale patrimonio di tradizioni, con i suoi ‘lieux de mémoire” fatti di luoghi fisici, piatti speciali, storie popolari, musica e l’arabo libico ebraico stesso”.
Sul perché nel dibattito scientifico sulla Shoah sia sempre stato marginale quello specifico sul Nord Africa, dove pure le persecuzioni antiebraiche sono state numerose e di grave entità, costituendo ancora oggi un grave trauma, si è invece concentrato Maurice Roumani, dell’Università Ben Gurion del Negev. Le ragioni da lui individuate sono molteplici, “da un problema di scarsa conoscenza, che porta con sé anche un certo pregiudizio, al fatto che la tragedia europea è talmente grande da lasciare poco spazio ad altri contesti, fino alla mancanza di strumenti professionali al momento della fondazione dello Stato d’Israele per raccontare queste storie all’arrivo degli ebrei di quelle regioni”. In una prospettiva generale, emerge secondo Patrick Bernhard (Zentrum fur Zeithistorische Forschung Potsdam) proprio dallo studio delle persecuzioni degli ebrei di Libia e di Tunisia il fatto che “le autorità italiane non erano né subordinate ai tedeschi né hanno agito in completo isolamento. Piuttosto, e nonostante permanessero differenze e conflitti, le relazioni dell’Asse in Nord Africa durante la Seconda guerra mondiale sono state segnate da scambi e cooperazioni per quanto riguarda l’antisemitismo”. E questo fa capire – la sua conclusione – che “il razzismo in ultima analisi non può essere affatto considerato un punto di divergenza tra nazismo e fascismo ma proprio un elemento di connessione.”
Un secondo intervento di Roumani descrive invece il processo e le conseguenze della deportazione fascista degli ebrei di Libia in Tunisia nel 1942, e sulla Libia si concentrano anche le ricerche di Sadoun, riguardante in particolare il pogrom di Tripoli del 1945 – “un evento traumatico che influenzò la successiva presenza ebraica nella città e la memoria storica della comunità” – e la bibliotecaria del Centro Bibliografico UCEI Gisele Levy, che descrive le reazioni degli ebrei alle restrizioni e agli editti degli anni Trenta, portando anche la testimonianza della sua storia famigliare. Martino Opizzi (Université Paris 8 ) si concentra invece sulla comunità ebraica tunisina, composta da una parte di popolazione locale presente da sempre, e una più piccola composta da ebrei italiani arrivati dal Livorno a partire dal XVII secolo, e in particolare sul problema storico collegato al fatto che questi ultimi “hanno mantenuto una narrazione positiva del ruolo della potenza fascista in Tunisia”. Il Dodecanneso è infine l’oggetto degli interventi di Valerie McGuire (Council of American Overseas Research Centers), che descrive le vicende delle comunità ebraiche di Rodi e Kos, e Felicina Pontis, responsabile del Memoriale sardo della Shoah, la quale a partire dalla storia di sua madre, ha descritto le sorti della comunità sarda a Rodi, che visse fianco a fianco con la comunità sefardita dell’isola e fu deportata nei campi di concentramento dopo l’8 settembre.
f.m. twitter @fmatalonmoked
(15 giugno 2016)