“Piccole e medie comunità,
mettiamo le carte in tavola”
Piccole e medie comunità. Una ricchezza irrinunciabile per l’ebraismo italiano. Ma facciamo chiarezza. Quale la loro distribuzione sul territorio? Quale il loro contributo? Quali le sfide che sono chiamate ad affrontare nel breve, medio e lungo termine? A rispondere è Davide Romanin Jacur, presidente della Comunità ebraica di Padova e coordinatore della Commissione Bilancio e Otto per Mille dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
Sono contento di avere l’occasione di esprimermi su questo tema, perché sono convinto che vi sia un gap di conoscenza. I rappresentanti delle cosiddette grandi comunità spesso si riempiono la bocca di asserzioni sulle piccole, ma dimostrano di non saperne più di tanto. Anzitutto serve una attestazione storica: a parte il primo insediamento ebraico pre-cristiano nella Roma Imperiale, l’origine delle comunità italiane è molto diversa da quasi tutti gli altri siti sparsi per il mondo, dopo la diaspora del 70 dC ; nel tardo Medioevo e fino alla metà del XIX° secolo, l’attuale Italia era divisa in tanti Comuni o Signorie, ove gli ebrei furono richiamati a svolgere funzioni precluse ad altri, per religione o incapacità. Oggi ci sono 21 comunità, ma in passato ce n’erano cento o più: caratteristica peculiare e sensibile quindi dell’ebraismo italiano da sempre, oltre al rito che non è conosciuto all’estero, è una ampia e capillare diffusione nel territorio; non occorre ricordare le grandezze di Mantova e Ferrara, la storia di Padova e Venezia, le comunità perdute del Piemonte, quelle siciliane e pugliesi, mentre ricordo che Milano è invece una comunità giovanissima. Ora la situazione demografica è diversa, condannata dall’assimilazione, prima ancora che dalla Shoah; dalla difficoltà matrimoniale e di procreazione, prima ancora dell’emigrazione in Eretz Israel; dagli spostamenti professionali. E così le comunità sono diventate piccole. Ma non per questo, i problemi delle piccole comunità sono diversi da quelli delle grandi: anzi, sono proporzionalmente maggiori. C’è chi dice che oggi ci sia a Roma una maggior povertà: anche nel resto d’Italia la crisi economica ha abbassato sensibilmente la redditività pro capite, creato nuove povertà, ridotto le possibilità di richiedere contributi istituzionali e quasi annullato le offerte liberali sulle quali, un tempo, le comunità sopravvivevano. Se gli assistiti sono passati da 4 a 10, è la stessa proporzione che ci sarebbe a Roma se fossero passati da 300 a 750. Se 12 persone in più sono senza lavoro, è come se a Roma fossero in più di 900. E si potrebbero fare altri esempi.
Nelle grandi comunità ci sono decine di associazioni, enti, deputazioni etc che si occupano di moltissime delle funzioni istituzionale di una comunità, con propri patrimoni, personale e luoghi: nelle piccole bisogna provvedere a tutto, con le medesime disponibilità, forza lavoro e forse un’unica stanza: conferenze e convegni ce li paghiamo; non abbiamo una scuola, ma ci paghiamo gli insegnanti di lingua ebraica e gli insegnamenti di Talmud Torah (oltre ovviamente al rabbino capo); a Padova ho sette cimiteri da mantenere, più le spese delle sepolture, perché sono in proprietà, un mikvé e un Museo; altre comunità hanno sinagoghe sparse in un vasto territorio. Tornando alle proporzioni, se organizzo un Seder per 70 persone, sarebbe come se Roma lo facesse per 5.000. Se porto in viaggio ai campi di sterminio (lo faccio da dodici anni, due o tre volte l’anno) 150 studenti è come se Roma ne portasse 11.000 (e io non vado in aereo, ma in corriera, e faccio lezione per dodici ore al giorno per quattro o cinque giorni a viaggio); se per il Giorno della Memoria facciamo 50 interventi in giro, è come se a Roma ne facessero 3.700. Ci sono i doveri di rappresentanza nelle manifestazioni pubbliche, perché facciamo parte delle cosiddette autorità. E sono sempre le stesse tre o quattro persone, in talune comunità una sola. Abbiamo gli stessi problemi di antisemitismo e di difesa di Israele, ma in un territorio più vasto: pensate a Napoli, che ha tutto il Sud Italia. In compenso è nei nostri territori che raccogliamo la maggior parte dell’Otto per Mille, direi sicuramente molto grazie al lavoro e alla presenza della nostra comunità: anche qui vorrei dire che ci sono comunità virtuose, ove il numero delle firme raccolte moltiplica fino a 68 volte (Parma) il numero degli iscritti; se facessimo proporzioni, l’ebraismo Italiano non si fermerebbe certo a 70mila firme, ma (con la media di 11 volte delle piccole) raggiungerebbe 250mila firme, pari ad un incremento di oltre 10 milioni di assegnazione.
Per questa stessa ragione, viceversa, ci risultano estremamente dannose tutte quelle notizie negative che rimbalzano anche in “periferia”: la gente ci ferma per la strada agitando il ditino in merito all’Ospedale Israelitico; oppure ci sbeffeggiano per la truffa passiva di Milano; ma molto di più ancora è il danno, quando rimbalzano delle esternazioni urlate alla pancia dell’elettorato ebraico (e soltanto a questo scopo), ma che vanno esattamente in senso contrario a quanto noi diciamo nelle nostre conferenze o lezioni (distinzione tra ebrei e governo israeliano, pretese di difesa da parte delle forze dell’ordine quando si vuol proporre un’azione che è dimostrativa, connivenze o contrasti con i politici e le amministrazioni, etc).
Parliamo quindi di Otto per Mille. I dati citati dimostrano come la stragrande maggioranza di chi firma per l’UCEI sia esterno al mondo ebraico. Passiamo a un altro punto, su cui spesso non c’è sufficiente chiarezza. Come avviene la ripartizione delle risorse?
Parto da un presupposto. Non partecipo agli pseudodibattiti sui social network, perché non ne ho il tempo e mi sono sempre dedicato a produrre (sia nella mia professione che nelle cose ebraiche) e non a parlare a vanvera. Parlando di Otto per Mille bisogna chiarire aspetti che sono spesso mistificati: l’assegnazione avviene con criteri di legge molto precisi e indicativi, cui poi bisogna portare equivalenti pezze giustificative (non certo ad esempio la “perdita di bilancio”). Ho già accennato a quale obiettivo si potrebbe arrivare se l’Italia rispondesse in maniera uniforme e se l’ebraismo si facesse ovunque amare e non criticare: i territori presidiati dalle piccole comunità contribuiscono al totale con il 76%. Ma ne ricevono circa il 35%, senza contare le larghe integrazioni, distribuite a parte alle grandi, o tramite gli enti o su esigenze speciali. La ripartizione ha avuto una grandissima evoluzione e avviene oggi su algoritmi lungamente studiati, discussi e rimodulati nelle commissioni, ove si è sempre condivisa una quadratura, grandi e piccole insieme: ricordo che la proposta della vigente ripartizione in Consiglio UCEI è stata presentata da Barbara Pontecorvo e Cobi Benatoff e ha ottenuto l’unanimità dei consensi, compreso il gruppo “Per Israele”. Tra gli elementi fondanti, mi piace ricordare il criterio del minimo di sopravvivenza (che sono poi circa 20mila €) per comunità che prima non avevano nemmeno i soldi per un dipendente a mezzo tempo (né rabbino, né segretario!); la proporzionalità inversa sulla “ricchezza pro capite” della comunità; l’incidenza della capacità auto contributiva pro capite; la proporzione sul numero di iscritti in età scolastica. Ecco: a fronte di un problema scuole – che andrebbe per altro risolto con convenzioni dedicate con il Ministero – l’UCEI già ripartisce una quota sensibile dell’Otto per Mille per l’istruzione. È altresì chiaro che si può operare soltanto con quanto c’è a disposizione e molto di più o di diverso si potrebbe fare, a fronte di maggiori disponibilità; di nuovo, ecco che dobbiamo salvaguardare la raccolta.
Come si pongono le piccole comunità in relazione alle politiche condotte dall’UCEI?
Le piccole potranno avere disparati punti di vista: quel che è certo è che sono fieramente istituzionali. Il primo (nuovo) Consiglio dell’UCEI invece che potersi avviare e organizzare nel lavoro, è stato occupato in diatribe e battaglie solo controproducenti alla possibilità di discutere contenuti e progetti; le commissioni erano forse troppe e alcune non hanno lavorato o non erano investite dal Consiglio di una capacità quale, fortunatamente, ho avuto in quella coordinata da me. Però, pur essendo forte il rammarico del tempo e delle energie perduti per nulla, io non considero negativa questa prima esperienza. Anzi mi sento di dover molto ringraziare le persone che ormai sappiamo non faranno più parte del prossimo Consiglio e che hanno fatto parte della Giunta e del Consiglio stesso. Ne sentiremo sicuramente la mancanza.
La formula a 52 Consiglieri del cosiddetto “parlamentino dell’ebraismo italiano” la soddisfa?
C’è chi propone di istituire un Consiglio formato dai soli presidenti, chi contesta ancora il mezzo voto. Mi sembrano tutte polemiche inutili, forse per far confusione a scopi elettorali. Il Consiglio così fatto è stato studiato e formulato nel Congresso di sei anni fa, anche dopo un accordo notturno in cui – presenti i Consiglieri Riccardo Pacifici, Guido Osimo, Giorgio Mortara e David Menasci – fummo noi ad accettare la proposta di Pacifici. Che 52 presenti (non è mai successo lo fossero contemporaneamente) non possano coesistere in un medesimo consesso è aleatorio, purché vi sia il rispetto delle regole di democrazia e buona educazione e le persone sappiano anche di poter perdere o essere minoranza; non di voler soverchiare gli altri oppure andarsene e operare per la distruzione dell’istituzione. Si vogliono copiare i peggiori comportamenti della politica italiana, immaginare grandi strategie con chi sa quali obiettivi, perdendo di vista l’unico concetto fondante di essere guida e immagine dell’ebraismo Italiano.
Se un giorno lo Statuto sarà ancora modificato (con che figura!) e fatto il “Senato” dei presidenti, intanto perderemmo le importanti momentanee minoranze delle grandi città (Milano si presenterebbe con due mezzi presidenti?); poi non vorrei che il passo successivo fosse quello di sancire che un presidente valga molto più di un altro, che ognuno di loro varrebbe quanto gli iscritti relativi, e che si sancisse quindi il potere assoluto e unico di Roma. Come ho detto, non corrisponde alla storia e nemmeno alla raccolta del consenso. Quanto ai mezzi voti mi sono già espresso allo sfinimento che non è così: premesso che non esiste il mezzo voto, ma un voto “abbinato” (se le due persone sono concordi c’è il voto, se fossero discordi ci sarebbe l’astensione), la ragione è stata unicamente quella di non avere un Consiglio di oltre 60 persone e abbiamo la dimostrazione di quattro anni in cui mai si è evidenziato un problema: gli otto rappresentanti si sono comportati civilmente, sempre concordando come esprimersi e sempre contribuendo ai lavori consiliari e delle commissioni.
Si tratta di un pensiero condiviso?
Qui parlo a titolo personale e quanto detto finora non vuol essere un manifesto. Si sa che tra due ebrei ci sono almeno tre o quattro punti di vista; che ognuno deve dimostrare la sua personalità e ha bisogno di sentirsi parlare. Quindi non posso mai dire che sia il pensiero delle piccole comunità; alcune hanno nuovi Consigli e forse esprimeranno diversi delegati. Però, conoscendo e avendo tanto condiviso con gli altri, mi sento di poter affermare che sulla linea di Padova ci siano Ancona, Bologna, Casale, Ferrara, Firenze, Genova, Mantova, Merano, Napoli, Pisa, Venezia, Vercelli, Verona e forse altri.
Tra i suoi obiettivi c’è quello di diventare presidente dell’Unione?
Assolutamente no e per varie ragioni che ho già spiegato a quanti mi hanno fatto la stessa domanda.
Pagine Ebraiche giugno 2016
(16 giugno 2016)