Roma – Banca e ghetto, invenzioni italiane

IMG_20160615_190700 “Perché l’istituzione dei ghetti è avvenuta proprio in Italia nel Cinquecento, nel momento in cui avveniva una trasformazione economica e politica?”. Non si tratta di una coincidenza, come spiega lo storico Giacomo Todeschini, che racconta di essere partito da questo interrogativo per lavorare al suo libro La banca e il ghetto (Laterza). Un saggio innovativo con cui si rompe il silenzio sul fatto che, ha osservato l’autore, “i ghetti, così come le banche, sono stati inventati in Italia”. Il volume è stato presentato ieri a Roma, al Centro bibliografico dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, con un incontro organizzato dal Centro di cultura ebraica della Comunità della Capitale e dal Master UCEI in cultura ebraica e comunicazione, a cui hanno partecipato gli storici Michael Gasperoni, dell’École française de Rome, Luciano Palermo, docente all’Università degli Studi della Tuscia, e Myriam Grielsammer dell’Università di Bar Ilan. Ad aprire la presentazione i saluti di Miriam Haiun, direttrice del Centro di Cultura Ebraica, e un’introduzione del presidente del Master UCEI e rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, mentre ha moderato il dibattito la storica Anna Esposito.
La banca e il ghetto delinea dunque una nuova prospettiva storica, come ha osservato Di Segni, demolendo alcuni luoghi comuni che hanno alimentato un pregiudizio “duro da scalfire, in particolare cioè quello che parte dagli intrecci fra mondo ebraico e potere finanziario”, per dimostrare che proprio il mondo ebraico fu la prima vittima dell’avvento del grande potere economico controllato dagli Stati. “La tesi espressa in questo volume – ha inoltre osservato Esposito – costringe gli storici a uscire dalla rassicurante posizione delle proprie ricerche per confrontarsi con una realtà storica più ampia non sempre visibile, e dare uno sguardo d’insieme”. D’accordo Gasperoni, il quale ha sottolineato che “la questione delle banche, così come quella dei ghetti, è stata sempre affrontata da una prospettiva locale, e mancano studi comparativi che permettano di uscire dal ghetto storiografico”.
Nel 1516 veniva fondato il ghetto di Venezia. Negli stessi anni, sempre in Italia, si assisteva alla nascita di un nuovo modello finanziario, destinato a grandi fortune: la banca pubblica. La banca e il ghetto sono dunque le due costruzioni complementari di una modernità in cui “la finanza costituisce l’aspetto più efficace del governo politico, e dunque del potere”, come ha sottolineato Palermo. Tra il Medioevo e il Rinascimento, la banca è perciò diventata in Italia un’invenzione strategica grazie alla quale le oligarchie cristiane al potere controllavano direttamente lo spazio sociale che dominavano. Si creava così la possibilità di indicare come economia “dubbia” quella in cui operavano gli “infedeli”, e il prestito a interesse e le attività economiche affidate dai governi agli ebrei erano derubricate ad attività minori e non rappresentative dell’economia “vera” degli stati. Una situazione che emerge chiaramente anche dall’iconografia dell’epoca, come ha sottolineato Grielsammer, mostrando al folto pubblico una carrellata di quadri in cui si nota una certa confusione per la quale anche nel caso siano cristiani coloro che compiono tali attività sono rappresentati con gli elementi tipici dello stereotipo dell’ebreo. Questo percorso ha condotto alla delegittimazione progressiva della presenza ebraica in Italia ed è culminato con l’istituzione dei ghetti i quali, ha concluso Todeschini, “possono essere anche letti come istituzionalizzazione di questa separazione”.

Di seguito il testo dell’introduzione al libro:

cope La banca ha avuto un’origine italiana, tardomedievale e cristiana, anche se le logiche con le quali questa realtà è stata costruita venivano da molto più lontano: Babilonia, l’Egitto, la Grecia e Roma, la tarda antichità cristiana. Queste origini remote hanno forse contribuito alla formazione di un linguaggio bancario che lascia ancora oggi intravedere, al di là della prosa quotidiana e domestica del risparmio e del deposito, il mistero del credito e del rinvio della resa dei conti a data incerta.
Il ghetto, invece, è stato per secoli pensato e rappresentato come una realtà estremamente concreta e circoscritta. Che il suo nome venisse o meno dal «getto» di fonderia veneziano, o dal «ghet» ebraico (il ripudio), i ghetti – istituiti in Italia nella stessa epoca della fondazione delle banche pubbliche cristiane – erano visti come un luogo di separazione, di segregazione più o meno assoluta e umiliante, di estraniazione. Il ghetto, quindi, è stato a lungo descritto in termini di spazio paradigmatico. Nettamente perimetrato, misurabile, topografico, cartografabile, è stato tramandato dalla memoria storica e dalla memoria individuale come un labirinto di strade strette, di case buie, di angoli inquietanti e di stracci. Ed è stato pensato non come il luogo di un’economia, ma piuttosto come una sorta di anfratto vergognoso in cui la gente per bene rischiava di impelagarsi in faccende di denaro rischiose e disonorevoli. Al contrario della «banca», il «ghetto» è sembrato racchiudere, per stereotipo, tutto quanto appariva il contrario dell’onore, del decoro inerente alla condizione cristiana, fatta com’essa era fra medioevo ed età moderna, nel «Rinascimento», di ricchezze e fasti visibili e invisibili. Il valore che le cose avevano posseduto nel mondo dei mercati segnati dal potere politico e dalla legge cristiani come veri e autentici si riteneva destinato a spegnersi nel «chiuso» del ghetto, inteso come simbolo murato del rifiuto delle verità cristiane.
L’immagine di un’opposizione fra banca e ghetto, fra vitale movimento produttivo dell’economia cristiana e statico riprodursi di un’economia ebraica del riciclaggio e del sordido, ha raggiunto la dottrina degli economisti del Novecento, da Sombart a Weber, nonostante il conflitto che li ha contrapposti a proposito del ruolo economico degli ebrei nella storia dell’Occidente. Fossero, gli ebrei dei ghetti, al modo di Sombart, gli scatenatori di un capitalismo selvaggio, gli iniziatori della finanza virtuale e avventuriera, i protagonisti dell’economia «del surrogato», oppure, al modo di Weber, gli esponenti dell’economia arcaica caratteristica di un «popolo paria», in entrambi i casi il ghetto è stato descritto dagli economisti del Novecento come il luogo di origine di un’economia ambigua, e insomma come l’ombra inquietante che contraddiceva la solarità delle economie cittadine e statali riassunta dalla banca pubblica, originatasi in Italia nella forma assai particolare del Monte di Pietà.
Gli storici della seconda metà del XX secolo, schiacciati dal peso della memoria della «distruzione degli ebrei d’Europa», benché nella sostanza abbiano accettato l’antica immagine di opposizione fra città cristiana e ghetto ebraico, si sono tuttavia affaticati a dimostrare che il rapporto fra ghetti e città, fra ebrei del ghetto e cittadini cristiani, è stato molteplice, che la mobilità dei ghettizzati è stata in effetti ben più notevole di quanto le norme potessero stabilire, e che l’economia del ghetto si intrecciava tutti i giorni con quella della città e delle sue banche o dei suoi Monti di Pietà. Questa volontà di sottolineare l’esistenza di una felice collaborazione ebraico-cristiana nell’Italia tre e quattrocentesca, al fine di negare la specificità italiana di un antigiudaismo economico da intendersi come matrice di un futuro antisemitismo tanto più genocidario quanto più denso di stereotipi finanziari, ha prodotto di conseguenza una lettura dell’epoca dei ghetti finalizzata fondamentalmente a descrivere l’integrazione fra economia del ghetto ed economia degli Stati. L’Italia dei ghetti e dei Monti di Pietà, della banca cristiana e del ghetto ebraico, in altre parole, sarebbe stata un groviglio di situazioni difficili da sintetizzare, una moltitudine di variabili locali irriducibile a un modello governativo fondamentale ed esportabile.
Benché si sia molto scritto e parlato di Italia dei mercanti e dei banchieri italiani in quanto iniziatori della «repubblica internazionale del denaro», dell’Italia delle città-Stato e dell’Italia «governata» dalla Chiesa come del luogo-situazione generatore di un modello politico «machiavelliano», l’immagine storiografica più divulgata dell’Italia rimane, nel complesso, quella di un mosaico di storie locali sostanzialmente contraddittorio e irriducibile a un significato sintetico. Raramente, pertanto, ci si è posti il problema del rapporto fra Italia economica e finanziaria degli ultimi secoli del medioevo, Italia cristiana e Italia che, di luogo in luogo, stabiliva criteri per la gestione di gruppi culturalmente dissimili da quello maggioritario. Tuttavia, al di là delle evidenti differenze locali, ma anche al di là dell’immagine dell’Italia culla della civiltà umanistica e repubblicana, ci si può chiedere quanto la storia d’Italia sia stata caratterizzata, nel passaggio dal «medioevo» all’epoca «moderna», da tratti unificatori connessi, da un lato, al rapporto fra economia finanziaria, religione e potere, e dall’altro dipendenti dal nesso – di solito alquanto sottovalutato – fra poteri locali oligarchici e minoranze cultural-religiose. Un doppio nodo relazionale spesso in grado di rivelare continuità sovraterritoriali nelle logiche del governo e dell’organizzazione economica e di produrre istituzioni economico-politiche durevoli e cruciali, come le banche e i ghetti.
Il fenomeno costituito dall’«invenzione» italiana della banca pubblica appare di fatto meglio comprensibile sia che venga reinserito nel contesto rappresentato dalla dialettica fra maggioranza cristiana e minoranza ebraica, sia che venga ricondotto a problematiche di governo della realtà economica che le molteplici configurazioni politiche dell’Italia medievale e moderna non riuscivano a risolvere. Nell’ambito della dialettica fra politica e finanza, tanto tipica dell’Italia fra XIV e XVI secolo, la minoranza ebraica – diversificata in sé stessa, diffusa sui territori e da sempre numericamente minima – sembra aver giocato un ruolo decisivo, rappresentando un modello di organizzazione sociale ed economica a cui reagì e si oppose la complessità di un’Italia cristiana frammentata e dispersa in una miriade di luoghi, di città e di contesti locali.
Al di là della secca contrapposizione fra banca e ghetto o dell’immagine conciliativa che ne ha descritto l’ipotetica collaborazione, ci si può dunque domandare se l’istituzione di situazioni sovralocali che, come i ghetti, circoscrivevano la minoranza ebraica, la nominavano come tale, uniformandola al di là delle specificità locali, e al contempo la fondazione di enti politico-economici poi abbondantemente esportati, quali furono alla fine del medioevo le banche pubbliche e i Monti di Pietà, abbiano avuto un valore unificante per una collettività multicentrica e diversificata come quella italiana sul principio della modernità.

Giacomo Todeschini

(16 giugno 2016)