Il tempo della rivalsa

vercelli La vittoria degli “euro-indisponibili” in Gran Bretagna è per più aspetti un passaggio storico. Non a caso il leader dell’Ukip Nigel Farage si augura che il 23 giugno diventi l’”indipendence Day”, nel mentre Marine Le Pen già si affretta a dichiarare il medesimo giorno come passaggio storico, in ciò seguita a ruota da Donald Trump e da vari esponenti della cosiddetta “antipolitica” continentale. Il resto della classe politica europea ed atlantica si è affrettata a stigmatizzare gli esiti, non senza però esserne causa, come nel caso del conservatore Cameron, autore di un clamoroso autogol, destinato ad essere ricordato negli annali della politica, o dell’afasico Corbyn, affrettatosi a rinserrarsi nel ridotto del suo radicalismo, depositario di suggestioni tanto anacronistiche quanto dannose. Dopo di che, al di là degli auspici conclamati, come delle maledizioni più o meno esplicitate, degli uni piuttosto che degli altri, non è fuor di luogo ritenere che il pronunciamento popolare dei giorni scorsi chiuda un lunghissimo ciclo, avviatosi nel secondo dopoguerra, quando da ciò che restava di un Continente sopravvissuto alla tragedia dei fascismi si andò affermando l’idea che solo un’unione degli Stati europei potesse rispondere alla sfida dei tempi e al rischio del ritorno delle bufere appena trascorse. Da ciò, con tutte le timidezze e le incongruità del caso, l’edificazione difficile, faticosa, affaticata delle Comunità prima e dell’Unione Europea poi. D’ora innanzi, invece, nulla sarà più come prima, fosse non altro per il riscontro che Londra era non solo la potenza continentale vincitrice della Seconda guerra mondiale ma anche uno dei soci più importanti nel processo di unificazione comunitaria. Il fatto che si fosse da sempre comportata adottando un calcolato passo del gambero, nonché mantenendo la propria moneta nazionale, in una tiepida concezione dei processi di integrazione collettiva, nulla toglie al senso di strappo, materiale ma anche simbolico, che la vittoria del “leave” ora ci consegna. Cosa ne deriverà per davvero, in forma duratura, indipendentemente dalle previsioni e delle diagnosi del momento, sarà solo il tempo a poterlo dire. Di certo, per come l’Europa è attualmente vissuta, se non da molti subita, da subito deriva però che il percorso di unificazione non potrà più proseguire assecondando le vecchie dinamiche. La spaccatura, prima ancora che politica, è di natura sociale. Da una parte chi crede che comunque dall’Unione, per come è a tutt’oggi, ossia svuotata di capacità attrattive, possano ancora derivare opportunità e chance. Dall’altra, ed è una quota crescente di persone, l’angoscia che deriva dal convincimento che la costruzione europea sia poco più di un inganno, consumato essenzialmente ai danni di chi si sente chiamato a pagare pegno indipendentemente dalla sue personali responsabilità e comunque a prescindere dai benefici che fino ad oggi gli sono stati garantiti. Nel mezzo, per così dire, ma intento a dare sostanza e corpo soprattutto al secondo raggruppamento, la condizione di derelizione vissuta da un ceto medio continentale in posizione di permanente retrocessione economica e di status. Lo stato di ‘crisi’, infatti, è oramai una costante nella vita di moltissime famiglie. Se l’Unione europea è nata anche per porre un qualche rimedio a tale condizione (reale o percepita che sia, poco importa, non facendo nei fatti la concreta differenza rispetto alle scelte elettorali) va allora riconosciuto che ha fallito l’obiettivo, venendo semmai intesa come uno dei fattori moltiplicatori del deterioramento sociale e non certo di attenuazione dei suoi effetti. La mappa del voto inglese fotografa questo stato di cose, costituendo un precedente che potrebbe ripetersi, di qui a non molto, in altri nazioni sotto stress. Soprattutto, quel che più fa pensare è che un progetto politico comunitario inteso a dare sostanza non solo al presente ma all’attesa del futuro, si sia capovolto in una sorta di regime cristallizzato di interessi, dal quale chi ritiene di viverne gli oneri vuole a tutti i costi sottrarsi. Confidando, semmai, nelle virtù del ritorno agli etno-nazionalismi, cioè alla rigida perimetrazione dei confini, alla divisione tra un “noi” e un “loro” che, nella sua illusorietà, è tuttavia vissuta come una panacea, non importa se solo temporanea. Tutto pur di non continuare a cedere allo strazio, sembrano pensare molti. Inutile richiamarsi, nel qual caso, alla insostenibilità di questo atteggiamento, al suo essere fuori dal tempo, nell’età della globalizzazione, destinato quindi a sommare sconfitte su sconfitte, moltiplicandone gli effetti deteriori. Poiché il senso di spossessamento è oggi fortissimo, alimentandosi anche delle oggettive incongruità generate da una univoca gestione dell’Unione, sospesa, come ben si sa, tra approcci tecnocratici, una maniacale visione dell’austerità imposta ai partner più fragili (la Grecia ne è un plastico esempio, indipendentemente dalla oggettive responsabilità delle sue classi dirigenti, che hanno taroccato i conti nel momento di entrare nell’Unione: la popolazione, infatti, ha pagato un prezzo esorbitante, dove al declassamento si è sommata l’umiliazione) e alla mancanza di risposte nel merito di questioni fondamentali come quelle relative alla coesione sociale, alla risposta ai processi migratori e alle pressioni che arrivano dal Mediterraneo orientale e meridionale, così come ai grandi temi della sicurezza collettiva. La progressiva vittoria delle formazioni politiche variamente (e spesso stancamente) definite “populiste” in diverse parti d’Europa, al pari dei temi di cui si fanno portatrici, impone peraltro di mutare una parte del repertorio del giudizi da formulare sulla loro natura. Non per rettificare simpatie o antipatie, variamente distribuite. Nel qual caso, infatti, di tratterebbe esclusivamente di un esercizio di opinione, non solo legittima bensì necessaria all’atto del voto, ma del tutto insufficiente per capire ed inquadrare, non tanto sul piano strettamente politico bensì politologico, il senso del cambiamento. Qualificarle come mera espressione dell’antipolitica è infatti un assurdo, costituendo piuttosto un nuovo orizzonte della politica continentale. Semmai, allora, occorre chiedersi cosa cambi per la società nel momento in cui partiti e organizzazioni che si dicono “oltre” la dicotomia tradizionale destra/sinistra prendono il sopravvento o assumono un ruolo rilevante nello scenario collettivo, dettando una parte importante dell’agenda nazionale. Un elemento su cui riflettere è quindi l’inadeguatezza dello stesso termine “populismo” per comprendere una pluralità di manifestazioni politiche, tra di loro comunque accomunate dal rimando al “popolo” come fonte di legittimazione non solo prima (la volontà del popolo trasfusa nei processi decisionali) ma anche ultima (il suggello di legittimità incontrovertibile che esso esprimerebbe in un regime di democrazia diretta, ossia senza mediazioni e filtri di sorta, fatta più di sensazioni che non di ragioni, di esclamazioni che non di riflessioni). L’Europa, da questo punto di vista, è variegata e non facilmente riconducibile ad un unico denominatore. Senz’altro il rimando alla collettività degli elettori – è questa una delle moderne accezioni del termine “popolo”, includendovi solo chi può esercitare il diritto a conferire un mandato e non la parte restante della società, altrimenti genericamente intesa come “popolazione”, ovvero insieme inerte (e irrilevante) di individui – è un punto fondamentale dell’offerta politica dei partiti e delle organizzazioni cosiddette populiste. Ma accanto alla magica parola si accompagnano aggettivazioni variamente modulate, accomunate dal conferire al “popolo”, a quel popolo al quale si chiede assenso e consenso, la condizione di soggetto collettivo ferito, deluso, ingannato e così via. L’implicito è sempre e comunque il rimando al fatto che le élite tradizionali (che siano politiche, economiche o culturali) non lo rappresentino dignitosamente, semmai avendo consumato un tradimento ai suoi danni. Un tradimento che continua. Le élite si sarebbero infatti curate solo dei propri interessi, a detrimento di quelli collettivi. Quindi, anche in ragione di ciò, costituirebbero un’espressione di abusivismo politico, sociale così come morale e civile. La fraudolenza del loro agire deriverebbe dall’avere piegato i rapporti di forza, già orientati in origine a proprio favore, in maniera tale da garantirsi rendite imperiture, impermeabili a qualsiasi redistribuzione. Siamo nei pressi del discorso, oramai ossessivamente ricorrente, sulla ‘casta’. La quale è tale poiché finge di rappresentare una collettività mentre, invece, salvaguarda esclusivamente il perimetro della sua ragion d’essere. L’Unione Europea costituirebbe il vertice e la sintesi di questo percorso di espropriazione. Premesso questo, per le formazioni cosiddette populiste non esiste quindi un popolo in quanto tale ma, piuttosto, un ‘popolo tradito’ alla ricerca di una legittima rivalsa. La politica muta da progetto di costruzione in esercizio di autodifesa. Nella raffigurazione corrente la miscela tra angoscia e risarcimento, tra paura per l’accerchiamento, rabbia per il senso di isolamento, timore per il declassamento e ricerca ossessiva, spasmodica di una ragione univoca che, spesso, si trasforma in capro espiatorio, è la vera moneta della comunicazione collettiva. Il tratto comune, per più aspetti quindi identitario, dei diversi partiti o gruppi di rappresentanza di tale genere è di fare da bacino e da cassa di risonanza di questo comune sentire. Che non è mai il prodotto del difetto di pedagogia democratica, come invece una parte della politica crede, o finge pedantemente e pedestremente di credere, ma il risultato di una visione dello stato delle cose dove gli individui vengono abbandonati a se stessi, ovvero ad un imponderabile e immodificabile destino al quale si sentono condannati ingiustamente. Al di là di quanto ci consegna il discorso reattivo che i partiti del malessere diffuso mettono in campo, riciclandolo e riproponendolo costantemente, mai come oggi la percezione di una scissione, forse addirittura di una secessione di fatto, vissuta per l’appunto come tradimento, tra chi è ‘garantito’ e chi invece non lo è (o si sente comunque in tale condizione), segna il punto di unione tra due estremi altrimenti sempre più inconciliabili. Ancora una volta il rimando alla geografia del voto inglese dice molto al proposito, nella dialettica negativa tra chi ancora concepisce il Continente unito come un potenziale campo di opportunità e chi, invece, lo definisce come una ragnatela destinata ad asfissiare le possibilità residue. Significativa la spaccatura intergenerazionale, che si somma a quella sociale. I più giovani confidano ancora, vivendo però la presenza delle generazioni meno giovani come un peso crescente; gli anziani, o comunque le classi di età maggiormente avanzate, sono di ben altro avviso. Non di meno, quel voto che tradizionalmente era raccolto dalle formazioni della sinistra, nel Regno Unito come in altri Paesi, si è perlopiù spostato verso il radicalismo conservatore, l’autodifesa a prescindere, concependo gli effetti della globalizzazione e dell’unificazione solo come un rischio. Si tratta della crisi dei territori, ossia di coloro che sono consegnati ad essi, al loro declino, non potendo godere in alcun modo delle ipotesi di mobilità lavorativa, economica ma anche culturale, linguistica, relazionale. Perdurando tale stato di fatto, le condizioni per perpetuare se non amplificare il senso di perdita di se stessi e del proprio futuro, rischia di aumentare. Se la Brexit può essere intesa come una scelta sbagliata, rimane il fatto che pensare di mantenere l’Unione Europea per come è venuta strutturandosi negli ultimi lustri è non meno illusorio. Quest’ultimo modo di essere è già fallito da tempo, benché ci sia chi se ne avvantaggi. Il rischio di una serie di referendum destinati a sancire, un po’ ovunque, la volontà di ‘uscire per non morire’, è un’ipotesi molto più concreta di quanto non apparisse anche solo qualche settimana fa. Il voto britannico sancisce la plausibilità di un processo di detonazioni in successione. La questione principe, come cento è più anni fa, torna ad essere quella sociale. Integrarsi implica aumentare la coesione sociale, non diminuirla nel nome di improbabili scenari di auto-aggiustamento, già abbondantemente smentiti dal corso in atto delle cose.

Claudio Vercelli

(26 giugno 2016)