Periscopio – Brexit

lucrezi Può capitare di volere dedicare a un medesimo evento due commenti di tenore esattamente opposto, uno di desolata amarezza, l’altro di rabbia distruttiva? A me capita oggi, a proposito della Brexit.
Il primo commento che avrei voluto scrivere è, infatti, il seguente. Appartengo a una generazione a cui hanno insegnato, fin da bambini, che era finita, o avrebbe dovuta finire per sempre, l’età delle guerre, delle divisioni, delle esclusioni, delle contrapposizioni, e che si sarebbe dovuti entrare, sempre di più, sempre più a fondo, in quella della pace, dell’unione, delle inclusioni, della solidarietà. L’Europa, in questa visione, certamente un po’ retorica, ingenua e romantica, era soprattutto un sentimento, una visione, un progetto dovuto, necessario, irreversibile.
Questo progetto è andato avanti, e come sempre nella vita, nel prendere corpo, è parso un po’ meno affascinante di quanto si pensasse. Ma, tutto sommato, a me, personalmente, piaceva. Si è molto parlato della generazione Erasmus, intendendo gli studenti formatisi nella varie Università europee, attraverso scambi di esperienze con docenti e colleghi di altre nazioni. Forse in questi soggiorni si fa più vacanza di quanto si studi, ma si tratta certamente di una bella realtà. Io appartengo alla generazione dei Professori Erasmus, e sono lieto e onorato di avere Colleghi amici in molte sedi accademiche di Europa e dintorni, a Istanbul (sono stato tante volte in quell’aeroporto straziato…) come a Oxford, a Parigi come a Siviglia o a Salisburgo (e, soprattutto, Gerusalemme, Haifa, Tel Aviv). Ma già da studente, quando Erasmus ancora non esisteva, grazie ai sacrifici dei miei genitori ho trascorso dei meravigliosi mesi di studio (e, soprattutto, impossibile negarlo, divertimento) in Germania.
Costruire, costruire sempre, sempre di più: questa la parola d’ordine che ho sempre sentito ripetere, e in cui ho voluto credere. Costruire istituzioni comuni, progetti, scambi, fiducia, futuro.
Poi, a un certo punto, le parole d’ordine, bruscamente, sono diventate altre, che non mi sono mai piaciute: demolire, scassare, smontare, azzerare, distruggere. Tutte parole basate, certamente, su varie argomentazioni, nelle quali ho però sentito aleggiare, soprattutto, un sentimento completamente diverso, opposto, a quello che avevo assorbito da giovane, e che mi era rimasto dentro.
Giovedì scorso, forse per la prima volta, queste parole (“demolire, scassare” ecc.) si sono concretizzate, con grande fragore, nel tripudio di milioni e milioni di ‘demolitori’, di tutto il mondo. Alla bambola Europa è stato smontato uno dei pezzi, uno dei più pregiati e importanti, e, se è stato possibile questo, sarà possibile smontare e demolire tante altre cose, più o meno tutto, e non solo in Europa.
Al di là di ogni valutazione politica, ho provato comprensibilmente un senso di profonda amarezza, come una sorta di delusione esistenziale. La delusione di chi, ormai anzianotto, vede fallire gli ideali di tutta una vita. Ho ormai fatto il mio tempo, largo ai giovani, inutile protestare.
Ma, come ho detto, mi è venuta voglia di sostituire questo commento con un altro, esattamente contrario. Ed è stato quando ho visto i rappresentanti del Parlamento europeo, proprio in questi giorni, tributare reiterate ‘standing ovation’ a un signore che è parso entusiasmarli con i suoi deliri antisemiti, che forse neanche ottant’anni fa avrebbero fatto spellare le mani con altrettanto vigore. É questa, mi sono chiesto, la realizzazione visibile del sogno europeo? Generazione Erasmus, o generazione Adolfo? E, senza pensare né ragionare, mi sono detto: “All’inferno l’Europa, speriamo che, dopo il Regno Unito, perda anche tutti gli altri pezzi”. Ripeto, senza pensare, né ragionare.
Non voglio scegliere tra il primo e il secondo commento, sono entrambi veri, o falsi. O sono, come nella canzone di Fabrizio De André, due lettere, “vere di notte, false di giorno”.
Avrò il triste privilegio di poter passare, a seconda dell’umore del momento, dalla “desolata amarezza” alla “rabbia distruttiva”. Che bello.

P.S.: Come piccola puntualizzazione rispetto a quanto scritto nell’articoletto di mercoledì scorso, preciso che lo spettacolo teatrale “Irena Sendler: la Terza Madre del Ghetto di Varsavia” è stato scritto, ideato e messo in scena da Roberto Giordano, con la consulenza storica di Suzana Glavaš, mentre il libro omonimo vede gli stessi Giordano e Glavaš, rispettivamente, come autore e curatrice.

Francesco Lucrezi, storico

(29 giugno 2016)