Leave

bassano“What is the EU?”. “What does it mean to leave the EU?”. Secondo Google Trends erano questi i principali quesiti che venivano rivolti nel Regno Unito al principale motore di ricerca dopo lo spoglio definitivo dei risultati del referendum sulla Brexit. Coloro che avevano votato “leave” inoltre, stando ad altre fonti, si sono in seguito mostrati pentiti della loro scelta. Forse se il referendum venisse riproposto oggi i risultati sarebbero differenti, ma non è questo il punto, il punto è cercare di capire cosa abbia spinto così tanti elettori a votare per lasciare l’Unione Europea. Come per le elezioni presidenziali in Austria tra i motivi principali v’è il problema dell’immigrazione e del libero scambio di (merci e) persone – considerando però che come in Austria, hanno votato per “leave” le zone rurali rispetto a quelle metropolitane, dove la presenza di stranieri è nettamente inferiore -. Un altro argomento è quello della riconquista della sovranità nazionale, o la percezione di un’Europa di tecnocrati che “nessuno ha eletto” lontani dai problemi reali del cittadino medio. Oppure la convinzione, alimentata soprattutto da partiti come l’Ukip, che i milioni versati ogni settimana e ogni anno a Bruxelles potrebbero essere investiti per potenziare i servizi pubblici, alleggerendo quindi le tasche della popolazione.
Qualsiasi motivazione abbia mosso i britannici, la loro decisione va comunque rispettata, come quella di qualunque democrazia; resta però che come per la campagna presidenziale di Donald Trump in USA sembra che la parola d’ordine sia ormai “Make your country great again”. I Pink Floyd – che nonostante l’antipatia per le posizioni su Israele di Roger Waters rimangono per me un gruppo memorabile – cantavano scimmiottando i neo-nazisti inglesi: “Would you like to see Britannia Rule again my friend All you have to do is follow the worms…” Un contesto che rievoca, per adesso lontanamente, quel ritorno ai nazionalismi e a quell’idea di grandezza che portò il continente alla prima e alla seconda guerra mondiale nel secolo scorso. Laddove il nazionalismo è sempre un’idea esclusiva per una certa categoria di persone che si auto-rappresentano come “nazione”, e nelle sue forme più oltranziste ha in sé sempre dei tratti discriminatori verso gli “altri”. Non stupisce che contemporaneamente, la storica francese di origine ebraica Elisabeth Roudinesco scrive su “L’Obs”: “Il y a un désir inconscient de fascisme dans ce pays”, e il giornalista Jonathan Freedland, sul Guardian, riporta secondo alcuni sondaggi che “un elettore statunitense su tre preferisce la dittatura alla democrazia, e considera la necessità di un uomo forte che guidi lo Stato”. Il fascismo nasce proprio da qui. Se come sosteneva mio nonno z”l gli Stati Uniti e la Francia dovrebbero essere i paesi meno propensi ad una dittatura, non oso pensare come sia la situazione altrove.
Ma oltre a queste considerazioni nefaste, sebbene l’Unione Europea sia per molti una “prigione senza uscita” diretta esclusivamente dalla burocrazia e da interessi economici, essa ha offerto l’opportunità soprattutto ai più giovani di uno scambio, di una conoscenza, e di una libertà di movimento prima improponibile. Come scrisse inoltre Hellen Keller “Alone we can do so little; together we can do so much”, le problematiche si possono risolvere solo uniti e dall’interno.
Forse gli inglesi non hanno tenuto conto a dovere anche di tutto questo; come insegnano i maestri l’uomo deve sempre prima guardare al positivo delle cose, rispetto al negativo. Come nell’ultima parashà dove Israele nel deserto si lamenta con D-o per la monotonia della loro dieta, costituita in prevalenza dalla manna, piuttosto di considerare realmente la loro uscita dall’Egitto, e quindi la propria libertà.

Francesco Moises Bassano

(1 luglio 2016)