L’insegnante meritevole

anna segreQualche settimana fa una mail della nostra coordinatrice di dipartimento, su richiesta del Comitato di Valutazione, ci invitava a segnalare le attività svolte nel corso dell’anno scolastico che si possono inquadrare come “azioni didattiche individuali o di piccolo gruppo volte a migliorare la qualità della didattica e il successo formativo degli studenti” (credo che la parte tra virgolette riproduca parola per parola le indicazioni ministeriali). Insomma, ciascuno di noi insegnanti doveva segnalare cosa aveva fatto per poter essere ritenuto meritevole e accedere di conseguenza al bonus. È una logica nuova, a cui si fa un po’ fatica ad abituarsi: per esempio, ho qualche esitazione prima di dichiarare le ore che ho svolto in preparazione delle attività per la giornata della Memoria: per un attimo mi sembra di voler lucrare sulla Shoah. Poi però considero la cosa da un altro punto di vista: sarebbe giusto se io fossi magari considerata non meritevole perché ho dedicato il mio tempo alla giornata della memoria al posto di tenere, per esempio, un corso intensivo sull’ablativo assoluto? Ovviamente no. E dunque via i dubbi.
È, comunque, una logica piuttosto bizzarra. Sembra che per essere considerati meritevoli dobbiamo dimostrare di aver fatto cose eccezionali, come se aver preparato e svolto regolarmente le nostre lezioni e completato regolarmente il nostro programma non fosse sufficiente. Anzi, dal confronto con i colleghi è emerso qualcosa di ancora più inquietante: c’è il concreto rischio che per essere considerati meritevoli gli insegnanti siano spinti a fare qualunque cosa (attività varie, interventi di esperti, cinema, teatro, concorsi di ogni genere, ecc.) tranne insegnare. O, se proprio ci si ostina ad insegnare, pare che sia necessario almeno utilizzare qualche metodo innovativo, effetti speciali, lavori di gruppo, internet, ecc. Guai a chi rimane legato all’antiquata lezione frontale. Mi pare che varrebbe la pena rifletterci un momento prima che si passi troppo bruscamente – come spesso accade in Italia – da un estremo all’altro.
Tante volte abbiamo orgogliosamente esaltato i metodi educativi dell’ebraismo: studio a coppie, discussione continua, le domande ancora più importanti delle risposte. Ma non dobbiamo neppure dimenticare un’infinità di racconti centrati su appassionanti lezioni di grandi Maestri, a cui si fa di tutto per poter assistere: da Hillel che si piazza sul tetto della scuola e finisce ricoperto di neve alla donna che lascia da solo il marito la sera di Shabbat, per non parlare di Mosè che fa addirittura un viaggio nel tempo per ascoltare una lezione di Rabbì Akivà. Insomma, noi che siamo stati forse i pionieri della “lezione non frontale” da millenni narriamo storie avvincenti di lezioni frontali.

Anna Segre, insegnante

(1 luglio 2016)