Qui Roma – Gli insegnamenti del Rebbe

IMG_20160707_203555 “I chachamim vedono le grandi guide del popolo ebraico come dei pastori, capaci di occuparsi di qualunque esigenza e qualunque questione, ed è la massima carica che si possa avere. E questo era il Rebbe, un vero pastore di Israele”. Così lo ha ricordato il rav Shalom Ber Hazan, rabbino della comunità Chabad di Roma, nel corso di una serata svoltasi ieri all’Hotel Quirinale di Roma in memoria di Menachem Mendel Schneerson, settimo e ultimo Rebbe del movimento Chabad-Lubavitch, nell’anniversario dalla sua scomparsa avvenuta nella data ebraica del 3 tammuz di 22 anni fa. A partecipare al limmud, anche gli shlichim Chabad Yitzhak Hazan e Ronnie Canarutto, il preside della Scuola ebraica di Roma Benedetto Carucci Viterbi, e il professor Gavriel Levy.
La serata è stata anche l’occasione per ricordare un’altra importante figura dell’ebraismo contemporaneo recentemente scomparsa, il Testimone della Shoah e premio Nobel per la Pace Elie Wiesel. Il rav Yitzchak Hazan ha ricordato la sua vicinanza con il Rebbe, grazie a un incontro avvenuto negli anni Sessanta da lui stesso raccontato nelle sue opere, con il quale Wiesel riuscì a superare molti dei traumi riguardanti il suo rapporto con la religione all’indomani della Shoah. “Nel Rebbe Elie Wiesel trovò una guida spirituale e quando si rivolse a lui pieno di rabbia nei confronti di Dio per quanto aveva dovuto subire, egli gli rispose che abbandonare la propria fede e la propria osservanza della religione sarebbe stato come far vincere i nazisti”, ha raccontato Hazan. “E questo è proprio un esempio di quello che era il modo di intendere la religione del Rebbe – ha spiegato – il quale a tutto cercava sempre di dare una risposta positiva e costruttiva”. Una visione, ha aggiunto il rav Canarutto, ben sintetizzata da un dialogo tra Wiesel e il Rebbe: “Come si fa a credere in Dio dopo la Shoah?, gli chiese il Testimone. Come si fa a non credere in Dio dopo la Shoah?, gli chiese di rimando il rabbino”.
Il rav Carucci Vitebi ha quindi proposto una sichah, un discorso, del Rebbe, riguardante la parashah di Shelah, letta lo scorso venerdì, nella quale si racconta degli esploratori che furono mandati in Terra di Israele prima che il popolo vi entrasse. Mettendo in evidenza la dimensione sovrannaturale del deserto, dove gli ebrei vivevano una vita completamente spirituale anche nelle questioni materiali – come il cibo, l’acqua, le abitazioni e i vestiti, tutti oggetto di miracoli da parte di Dio – e viceversa quella terrena della Terra di Israele, dove gli ebrei avrebbero dovuto dedicarsi anche alla materialità, il Rebbe, ha sottolineato Carucci Viterbi, “afferma che anche noi nella vita quotidiana dobbiamo avere sia momenti di midbar, deserto, sia momenti di Eretz Israel. Il midbar è quando preghiamo e quando studiamo, mentre Eretz Israel è quando lavoriamo ed entriamo nella materialità. Il nostro compito – le sue parole – è di mettere insieme queste due dimensioni” A riportare una lezione del Rebbe anche il professor Levy, che si è invece concentrato sul commento alla parashah di questa settimana, quella di Korach. Anche lui, come Hazan, ha messo in evidenza la capacità del Rebbe di vedere sempre elementi di positività anche a fronte delle più grandi difficoltà, riuscendo sempre a trasmettere questo spirito con grande emotività. “In una delle sue interpretazioni il Rebbe sottolinea come il vero senso di commettere una averah, una trasgressione, sia nel fatto che poi si può fare una teshuvah, esprimere il proprio pentimento, in modo particolarmente sentito, poiché il dolore di aver trasgredito imprime forza alla preghiera. Questa lezione ci dimostra – ha quindi concluso – che anche nelle cose più negative ci può sempre essere qualcosa di positivo”.

(8 luglio 2015)