Essere fuori scena

vercelliCi troviamo dinanzi ad una tale inflazione di sgradevoli notizie che, anche avendone la voglia, viene quasi a mancare il tempo per commentarle. Con quali parole, poi? Di deprecazione, di sconcerto, di accusa o che altro? Verificatosi un episodio deprimente o angosciante (in genere entrambe le cose nella medesima misura, l’una fronte e la seconda retro di una stessa medaglia) se ne avvicenda un altro per poi proseguire con l’ennesimo ancora. Si tratta di una successione pressoché interminabile, una sequela senza fine, una sequenza ininterrotta. Dopo di che, fatta la tara di una disposizione d’animo forse pessimista, va riconosciuto l’improbabilità che il tempo che stiamo vivendo sia necessariamente, se non esclusivamente, peggiore di altri già trascorsi. Ovvero, non risponde al riscontro dei fatti storici l’impressione, altrimenti piuttosto diffusa, che le cose oggi vadano in un verso più oscuro e brutale rispetto ad altre epoche. Il tasso di aggressività così come quello di prevaricazione non sono di certo una prerogativa del presente. Hanno solide radici in ciò che è stato. Plausibilmente, avranno un futuro, anche se ci auguriamo che i fatti a venire possano smentirci. Semmai ciò che rende a sé stante l’epoca che stiamo vivendo, oltre alla sensazione di un vertiginoso cambiamento che sfugge alla nostra capacità di governarlo, sono due aspetti che invece mancavano nel passato. Il primo di essi è la misura del fallimento dei sistemi collettivi di prevenzione e di inibizione della violenza. Che si tratti delle grandi organizzazioni internazionali piuttosto che della pedagogia della cittadinanza e dell’integrazione, dei tanti sforzi fatti per contrastare l’estensione incontrollata del campo del dominio e della sopraffazione piuttosto che della diffusione di una cultura della solidarietà e della giustizia, rimane il fatto che l’insieme di questi impegni, spesso prima ancora che tradotti in gesti concreti sanciti da solenni dichiarazioni di volontà, si rivelano, alla resa dei conti, incapaci di arginare la rabbiosità, il livore ma anche l’inverecondia e l’oscenità (nel senso dell’esibizione di ciò che invece dovrebbe rimanere consegnato al rispetto del pudore) che circolano nelle nostre società così come nei rapporti tra le nazioni. La cesura della Seconda guerra mondiale, sulla quale una coscienza europea ha costruito le sue ragioni d’essere, sembra oggi essere inetta e inane rispetto alla potenza di qualcosa che ritorna o che forse non è mai venuto meno, aspettando i tempi appropriati per manifestarsi di nuovo. Non siamo al cupio dissolvi, alla deriva definitiva, alla morte delle speranze ma senz’altro misuriamo, ora come non mai, il senso di un declino collettivo al quale non sappiamo bene cosa rispondere. Dietro l’angolo non c’è l’apocalisse. Semmai ritroviamo la nostra afasia, la nostra incapacità di formulare delle risposte adeguate ad uno stato delle cose nel quale non ci riconosciamo ma dal quale non sappiamo come liberarci. Una crisi di impotenza, per più aspetti, è ciò che incombe su quella parte del mondo che chiamiamo “Occidente”. Il secondo aspetto, non meno importante, è che viviamo all’interno di società letteralmente invase dalla merce-informazione. Siamo bombardati da una miriade disordinata di sollecitazioni, di immagini, di raffigurazioni, di parole, di urla che vorrebbero stimolare una qualsiasi reazione. In parte ci riescono ma non è la risposta che si vorrebbe ottenere, alimentando semmai il circuito della contrapposizione brutale. Qualcuno, in tempi neanche troppo lontani, aveva affermato che alla base della democrazia, e della sua diffusione universale, vi fosse quella forma peculiare di conoscenza che si lega alla distribuzione di notizie. Più esse circolano, stabiliva una facile equazione, maggiore sarebbe stata la sovranità collettiva. Non è vero. Ossia, non è vera l’equazione in sé. Poiché la circolazione non fa da sola la conoscenza e la conoscenza non è da subito coscienza civile e morale. Se mancano gli strumenti per stabilire un senso condiviso, i filtri per cogliere ciò che è fondato da ciò che è destituito di fondamento, allora il rischio che si corre è piuttosto quello di una sorta di anarchia informativa, dove alla moltiplicazione di fonti, occasioni, circostanze di comunicazione può corrispondere il disordine cognitivo, l’incomprensione, addirittura la paura e quindi la chiusura rispetto ad un mondo che non risulta maggiormente chiaro bensì minaccioso perché impossibile da interpretare nella sua babele di segni. Sempre più spesso si ha l’impressione che la contrapposizione, ai giorni nostri, non sia più tra vero e falso bensì tra reale e fittizio. La retorica dell’autenticità, quella per cui esisterebbe un nucleo di informazione sottratto a qualsiasi influenza di parte, a prescindere dai rapporti di forza e dagli interessi in gioco, rischia allora di rivelarsi come lo specchio capovolto del ricorso ossessivo, inflazionato, allo storytelling, ovvero alla costruzione di narrazioni che si impongo al posto delle scelte politiche collettive, quelle che per davvero dovrebbero invece incidere sulla vita dei più. Ciò che lamentiamo non è quindi un difetto di saperi – fermo restando che molti contemporanei non vogliono sapere preferendo piuttosto guardare dal buco della serratura per “godersi lo spettacolo”, nella convinzione che mai ne saranno chiamati in causa – ma una mancanza di decisioni. Il sistema sociale e culturale nel quale siamo immersi è troppo complesso per delegare al singolo individuo un potere decisionale che non sia quello strettamente vincolato e relegato ad alcuni aspetti della sua vita quotidiana. Neanche tutti e non necessariamente i più importanti, tra le altre cose. La domanda pressante è allora che ci sia chi, avendone la capacità, si faccia carico, responsabilmente e consensualmente, di governare quegli infiniti processi che sfuggono all’influenza degli individui benché gli effetti di essi si riversino inesorabilmente ogni giorno su di essi. Sempre più spesso come un onere così gravoso da risultare intollerabile. Un terzo aspetto, che si lega ai primi due, infatti, è la defezione delle élite. Il divorzio tra queste – chiunque siano e indipendentemente da chi o cosa siano costituite – e il territorio, abitato da una moltitudine di persone che si sentono abbandonate a sé e ad un destino che non sono in grado di prendere nelle proprie mani, sta pesando nel riproporsi di quel senso di smarrimento che attraversa ciò che chiamiamo “Occidente”. Lo attraversa come crisi di fiducia, sia verso classi dirigenti che non sembrano, né intendono, essere tali sia nei confronti di un tempo a venire che sembra gravido più di interrogativi che non di speranze. Se non si ricuciono questi strappi il rischio che il possibile declino si trasformi in un tramonto certo è qualcosa di più della profezia di una qualsiasi Cassandra. Lo sta a dimostrare il combinato disposto tra populismi e fondamentalismi. Gli uni e gli altri sono il grado zero della politica, raggiunto il quale tutto si fa illusorio e, quindi, pericolosamente prossimo alla regressione senza fine.

Claudio Vercelli

(10 luglio 2016)