Sydney Schanberg (1934-2016)

09schanberg-obit-1-master768 “Praticamente il corrispondente dall’estero perfetto: un uomo d’avventura che sapeva correre dei rischi, che non si fidava degli ufficiali ma solo di se stesso in una zona di guerra, e scriveva vividamente allo stesso modo di tiranni politici e militari e della sofferenza e della morte delle loro vittime, con la passione di un testimone della storia”. Così il New York Times descrive il suo storico reporter dall’indocina Sydney Hillel Schanberg, deceduto ieri a New York per problemi di cuore all’età di 82 anni. Schanberg, proveniente da una famiglia ebraica, nato a Clinton (Massachussets) nel 1934 e diplomato ad Harvard, per quei reportage aveva vinto un premio Pulitzer nel 1976. Successivamente denunciò le atrocità dei comunisti cambogiani, i khmer rossi, anche nel libro The Death and Life of Dith Pran (Penguin, 1980), da cui nel 1984 venne tratto il film del regista Roland Joffé Urla del silenzio, vincitore di tre premi Oscar. Il protagonista del libro e del film – ma anche della stessa vita di Schanberg, che non si arrese mai all’idea che fosse scomparso – è appunto Dith Pran, fotoreporter cambogiano suo amico e assistente, che era stato imprigionato nel 1975 in un campo di lavoro dal feroce regime comunista di Pol Pot e solo nel 1979 era riuscito a fuggire in Thailandia e poi a raggiungere gli Stati Uniti.
Era la primavera del 1975, e la guerriglia guidata dal dittatore comunista cambogiano Pol Pot si riversava sulla capitale Phnom Penh. Per il New York Times quello era il momento che il suo corrispondente rimpatriasse, per non rimanere vittima di quella situazione rischiosa. Ma come lo stesso giornale ha oggi riconosciuto, Schanberg era uno che amava correre dei rischi, e così con il suo assistente locale Dith Pran decise di rimanere dov’era, per documentare al mondo le atrocità a cui assisteva. “La nostra decisione di restare – scrisse poi – si basava sulla nostra convinzione, o forse guardando indietro era più un augurio o una speranza, che quando i khmer rossi avrebbero avuto la loro vittoria, avrebbero avuto quello che volevano e avrebbero posto fine al terrorismo e alle pratiche brutali di cui avevamo così spesso scritto”.
09schanberg-obit-2-master675 Ma così non fu, e quando dopo un breve e illusorio periodo di calma le violenze si moltiplicarono, gli stessi Sydney e Dith fuono catturati e minacciati di morte. Furono le preghiere del fotoreporter cambogiano a salvare Schanberg, ma purtroppo non se stesso: mentre il primo trovava rifugio nell’edificio dell’ambasciata francese, lui veniva costretto a unirsi a un esodo di civili verso la campagna. “Era l’inizio di un mostruoso esperimento sociale – scrive il New York Times – l’espulsione di milioni di abitanti delle città e la soppressione delle classi sociali con un alto livello di istruzione per riplasmare la Cambogia in un’utopia agraria”. Il tutto a costo di due milioni di vite in quattro anni, per la fame, le malattie, la schiavitù e l’omicidio.
Nel frattempo, un paio di settimane dopo il rilascio Schanberg e altri occidentali catturati furono fatti evacuare in Thailandia, e di quel viaggio il giornalista raccontò la desolazione di un paese completamente devastato e senza più una popolazione. Poco dopo Sydney tornò a New York, da dove riuscì ad aiutare la moglie di Dith e i suoi quattro figli a ottenere asilo politico negli Stati Uniti. E la sua vita, segnata dal senso di colpa per averlo lasciato indietro, da quel momento fu sempre dedicata alla memoria del collega catturato, a cui dedicò tutti i numerosi premi che vinse. Divenuto intanto reporter da New York, Schanberg non ebbe più notizie di Pran fino al 1978, quando il Vietnam invase la Cambogia spodestando il dittatore. Così Dith riuscì a scappare – dopo essere riuscito a mascherare per anni la sua istruzione ed essere sopravvissuto a ogni sorta di tortura – e a raggiungere un anno dopo gli Stati Uniti. Dopo averlo aiutato a spostarsi a New York con tutta la famiglia e a trovare un lavoro al New York Times, Schanberg trasformò l’avventura dell’amico in un articolo per il New York Times Magazine, che diventò un libro, poi un film.
In seguito Schanberg scrisse ancora per il New York Times per molti anni e poi per altre testate, tra cui un reportage per Vanity Fair di nuovo dalla Cambogia nel 1989 e nel 1997, e vinse molti altri premi per la sua attività di giornalista. “Sono un uomo davvero fortunato ad aver avuto Dith Pran come partner e ancora più fortunato per averci potuto reciprocamente chiamare fratello”, aveva detto alla scomparsa del collega nel 2008. “La sua missione con me in Cambogia era di raccontare al mondo quali sofferenze stava subendo la sua gente in una guerra che non è mai stata necessaria. È diventata anche la mia missione – la sua conclusione – e non avrei potuto affrontarla senza di lui”.

Francesca Matalon twitter @fmatalonmoked

(Nelle immagini: in alto, Sydney Schanberg e Dith Pran mentre intervistano un soldato del governo nel 1973; sotto, i due negli uffici del New York Times a Mahhattan nel 1980)

(10 luglio 2016)