Intolleranze alimentari

anna segreNon avrei mai immaginato di sentire la commessa di un banco di gastronomia premurarsi di avvertire che nella frittata ci sono le uova. Non mi ha sorpreso tanto la confusione, più che comprensibile, tra vegetariano e vegano, quanto lo scrupolo di chi non pretende di dare per scontato neppure che i clienti concordino sulla definizione comunemente accettata di “frittata”. In Italia fino a tempi relativamente recenti si faceva una fatica terribile a far accettare l’idea che qualcuno potesse essere vegetariano. Poi, come spesso accade nel nostro paese, si è passati abbastanza repentinamente da un estremo all’altro: oggi nessuno si sorprende se qualcuno chiede il pane senza grano o la frittata senza uova. Qualunque tipo di vincolo, restrizione, abitudine, ossessione, viene generalmente accettato e rispettato, che si tratti di ragioni etiche o di salute, di equilibrio psicofisico o di chili da perdere. Tutte le diete più bizzarre e le mode alimentari più strampalate hanno libera cittadinanza. Davvero tutte? No, in effetti non proprio. Quando le limitazioni alimentari derivano da precetti religiosi ecco che improvvisamente rispuntano i vincoli e le rigidità di un tempo, legati a una malintesa idea di laicità.
Un esempio sconcertante di questa anomalia si trova nel numero di maggio del periodico torinese L’incontro. “No al cibo Kasher” è il titolo di un trafiletto che, dopo aver riferito sommariamente della nascita del marchio K.it e del libro “La dieta Kasher” curato da Rossella Tercatin (curiosamente il nome della ben nota giornalista di Pagine ebraiche è definito – chissà perché – “probabile pseudonimo”), conclude con il seguente monito: “Queste scelte, separatiste rispetto all’ambiente in cui gli ebrei vivono nella diaspora, appaiono non soltanto superate storicamente, ma nel complesso ridicole, incompatibili con il laicismo e pertanto da respingere fermamente.” Un monito, come abbiamo visto, molto datato: se nel mondo di oggi si dovesse considerare “separatista” chi segue un regime alimentare particolare ci sarebbe da domandarsi chi sia separato da chi, perché i “non separati” sarebbero un’esigua minoranza. Ma, soprattutto, inquietante. Se il trafiletto volesse essere una rivendicazione del diritto di non mangiare kasher o un invito rivolto agli ebrei a ignorare la kasherut la sua collocazione appropriata sarebbe stata in un giornale ebraico o comunque rivolto a una maggioranza di lettori ebrei. In una rivista che, pur spesso attenta a temi ebraici (per esempio, nello stesso numero ospita un ben documentato articolo sulla Brigata Ebraica), non è indirizzata specificamente agli ebrei il monito suona inevitabilmente come un invito all’intolleranza. Ma quale genere di regime potrebbe arrivare a negare alle persone il diritto di decidere liberamente cosa mettere o non mettere nel proprio piatto o nella propria borsa della spesa?

Anna Segre

(15 luglio 2016)