Il male della banalità

vercelliDue ordini di considerazioni, non immediatamente sovrapponibili, anche se messe non per caso nelle stesse righe. Primo punto: per troppo tempo ci siamo cullati nella convinzione che la guerra fosse uno stato dell’inciviltà che riguarda “altro” e, soprattutto, appartiene ad “altri”. L’idea che molti hanno del dolore e della morte scatenati dalla violenza bellica è racchiusa nelle immagini sincopate che la prima guerra del Golfo, quella combattuta contro Saddam Hussein nel 1991, ci ha consegnato. Sembrava di assistere ad un videogame, nulla mi meno, niente di più. Oggi scopriamo che nei fatti, invece, le cose non stanno così. A patto, ovviamente, di riconoscere che esistono guerre tra di loro molto diverse, asimmetriche, comunque differenziate nei modi, nelle forme, nei mezzi ma non nei risultati, ossia i morti, le distruzioni e tutto quello che si può immaginare e dire di esse. L’Europa, che più di settant’anni fa ha concluso un conflitto epocale di cui era stata, insieme al Pacifico, l’epicentro, ha voluto non solo svoltare pagina ma immergersi in un sogno (quello di una pace perpetua ma esclusivamente dentro i confini di casa sua) che, se non puntellato dai fatti, rischia adesso di trasformarsi, passo dopo passo, in un incubo ad occhi aperti. Tralasciare quest’ultima considerazione sarebbe demenziale. Il prenderla in considerazione sul serio ci impone però di rivedere i criteri e le logiche con le quali affrontiamo le crisi mondiali così come anche i grandi problemi delle nostre società, i cui effetti ci investono direttamente. Il combinato disposto tra la pressione del terrorismo islamista, la decadenza del progetto di unificazione europea, un Mediterraneo e una grande parte del Medio Oriente che sono divenute aree di instabilità permanente, il “declinismo” come ideologia corrente insieme ad altro, molto altro, tra cui anche la lezione del “non c’è alternativa” allo stato corrente delle cose, rischia di segnare un punto di non ritorno. Tra mediocre ipnotismo, bellicismo pantofolaio e pacifismo imbelle. Tra relativismo ossessivo e feroce identitarismo. Tutti sintomi di una patologia dell’impotenza, perlopiù vissuta attraverso l’illusione di avere un recinto da difendere, un muro dietro il quale nascondersi, una quotidianità che potrebbe comunque continuare, senza essere in alcun modo toccata per davvero dai fatti che ci circondano. In realtà, già da diversi anni le nostre libertà vanno contraendosi, i nostri spazi rarefacendosi, i nostri diritti, vissuti da noi come esclusivi ed assoluti, elidendosi. Accettiamo ciò come un dato ineluttabile, consegnando, soprattutto alle generazioni a venire, il frutto velenoso di situazioni intollerabili, di livide realtà sempre più spesso invivibili, di conflitti non negoziabili e, quindi, destinati a marcire e a fare degenerare ciò con cui entrano in contatto. La strage di Nizza è solo un anello di questa catena. Si impone per la sua eclatanza nello stesso modo in cui si impone per la nostra indifferenza l’assassinio simultaneo di civili a Baghdad piuttosto che in un qualsiasi altro luogo del mondo. Clamore e assopimento sono divenute le due facce della stessa medaglia, quella che è coniata dall’ebetudine e dall’inettitudine. A ciò vale la pena di aggiungere, spostando di un poco il fuoco dell’attenzione dalle tragedie del terrorismo agli esibizionismi del turismo politico, che un pericoloso virus alligna e circola nelle nostre società, insieme a quello della distruttività: si tratta della banalizzazione delle cose della vita, a partire dall’esistenza in comune per arrivare a quella strettamente individuale. La politica non ne sfugge, semmai diventandone l’epicentro. Alla complessità dei tempi che stiamo vivendo – che non vuole dire incomprensibilità né, tanto meno, revoca delle facoltà critiche per sopravvenuta indisponibilità ad esercitarle – si contrappone un’ansia di “semplificazione” (parola entrata a suo tempo addirittura nel lessico della nostra pubblica amministrazione, salvo trovarci dinanzi a processi che nel suo nome si sono resi ancora più complicati, vischiosi e paludati di quanto già non fossero). Si fortifica e si impone imperiosa come un muro impenetrabile, davanti a qualsiasi bisogno di capire e dire che non sia solo la ripetizione del raglio dell’asino beota e quindi falsamente beato. D’altro canto, il tasso di intolleranza nei riguardi di qualsivoglia tentativo di spiegazione che superi un tempo medio di non più di trenta secondi, in accordo con la durata di uno spot televisivo inteso come una microstoria a sé, è dato piuttosto diffuso e condiviso. Che questo atteggiamento mentale non sia solo uno sgradevole e collaterale scarto del presente ma costituisca piuttosto una parte integrante se non imprescindibile della società della “iperinformazione”, dove tutti ritengono di essere e fare notizia, nonché di potere interpretare la realtà in assenza di qualsiasi riflessività, è sempre più spesso oggetto di discussione. Una riflessività e una discussione che valgono per coloro che vi si intendano impegnare ragionevolmente, sia ben chiaro. Poiché in genere questi ultimi sono altrimenti accusati di essere supponenti, saccenti e presuntuosi. È tipico dell’ignoranza compiaciuta, d’altro canto, attribuire il suo peccato di fondo a ciò che tale invece non è, di fatto proiettandolo su quanti vorrebbero ragionare. Un gioco di specchi che si “riflette” con ossessiva costanza. Il breve viaggio di alcuni esponenti parlamentari del Movimento Cinque Stelle in Israele e nei Territori, al di là della legittimità per un’organizzazione politica nazionale di adoperarsi in tali iniziative (le quali possono essere variamente giudicate ma che trovano la loro sanzione definitiva nella reazione assunta ufficialmente delle autorità del Paese di cui sono ospiti, in questo caso condensabile in una sostanziale indifferenza), sembra aderire molto all’imprinting richiamato nelle righe precedenti. Per ragioni tra di loro assortite e non, come penserebbero i difensori ad oltranza del “nuovo che avanza”, in omaggio ad un cieco pregiudizio politico. Non è quest’ultimo, infatti, che genera le perplessità ma è semmai l’alimentare costantemente le perplessità ciò che rischia di tradursi in un viatico per il rifiuto a prescindere. A partire dalla logica della contrapposizione del muro contro muro, già sufficientemente ripetuta nel contesto di quel confronto di lungo periodo che è ancora aperto nelle terre che i parlamentari hanno visitato, quindi parte stessa del conflitto nella sua non negoziabilità, per il quale poco o nulla servono le prese di posizioni di principio e, ancor meno, il gioco dei ruoli precostituiti. Non si tratta di invocare una neutralità preconcetta e ancora meno la partigianeria. La premessa, semmai, sta in uno sforzo di obiettività che potrà poi portare a determinate prese di posizione. Dopo di che, detto questo, l’impressione che concretamente si raccoglie è, in buona sostanza, che certi gesti destinati ad una immediata ribalta collettiva e ad una risonanza pubblica siano perlopiù dei segnali lanciati al proprio elettorato, a conforto di idee già preesistenti. Quindi, indirizzati a rafforzare una logica completamente autoreferenziale. Tutta la retorica, sospesa tra melassa e palude, della democrazia diretta (la forma più recente di quel “potere al popolo” che nel mentre evoca l’uno e l’altro, coniugandoli come se fossero endiadi, ovvero facce complementari di una stessa medaglia, rischia concretamente di togliere al secondo i residui controlli sul primo), si ammanta di dichiarazioni di principio, di affermazioni inderogabili, di rimandi, dai tratti quasi maniacali, ai diritti elusi, alle offese da riparare e quant’altro. In questo caso lo si è fatto presentando un’iniziativa politica alla stregua di un viaggio-studio. Generando inoltre un caso mediatico, quello del divieto d’accesso (quindi di libera circolazione per i “cittadini parlamentari” che “debbono sapere” per “riferire al popolo”) in una zona spesso interdetta per le ragioni che bene sanno quanti le ragioni intendono conoscerle per davvero. Dinanzi alla prosopopea dei giovani virgulti (ancora una volta, il “nuovo che avanza”), chi assai più modestamente quei viaggi li ha fatti ben prima di loro, anche nei Territori, magari vivendo per un po’ in quelle terre, per poi rendere tutto ciò non solo un soggetto di identificazione ma anche, nel limite delle sue capacità, un elemento di studio, sente di nutrire due reazioni diverse ma, in fondo, anche complementari. Da una parte il desiderio di dichiararsi sconfitto: c’è sempre qualcuno che vuole insegnarti chi sei e cosa pensi, tuo malgrado. Succede soprattutto nell’osannata Rete, quella sulla quale transiterebbe a piè sospinto la verace sapienza che promana da un “popolo” inteso in quanto oracolo, tanto più quando si esercita nella demenza digitale. Dall’altra, però, l’indulgere del pensiero, in fondo senza neanche troppa originalità, alle quasi abusate parole di un sardo acclimatatosi a Torino quando, in epoca non sospetta, ossia nel 1921, scriveva di un certo movimento politico, allora in crescita di consensi, che: «… si è presentato come l’anti-partito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. […] è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano». Le omissioni nel testo sono volute. Qualcosa che torna, quindi? No, risparmiamoci le banalità, per l’appunto. Piuttosto qualcosa che non è mai del tutto passato, in fondo. Anche se per ogni stagione può permettersi di vestire panni diversi, come si conviene a chi sa presentarsi nel suo essere “nuovo”. Non c’è vestito meno recente di quello che viene presentato come inedito. La taglia è quella indossata dal giacobinismo delle virtù. Quel viaggio è legittimo, va ripetuto. Lo scetticismo, ad essere cortesi, non di meno. In una valanga di grevi “banalità” che è tra le cifre della crisi che stiamo vivendo.

Claudio Vercelli

(17 luglio 2016)