Il contrario della paura
Tra i motivi per cui, fino ad oggi, l’Italia appare (diciamolo incrociandolo le dita e toccando ferro…) meno colpita da devastanti attacchi terroristici – come quelli, per esempio, che hanno colpito e colpiscono Paesi a noi vicini come la Francia, il Belgio, la Spagna, il Regno Unito -, si deve certamente annoverare un egregio lavoro di prevenzione e di intelligence effettuato, oltre che dalle nostre forze di sicurezza, dalla nostra magistratura requirente, e, in particolare, da quel fondamentale strumento di coordinamento investigativo che è rappresentato dalla Procura Nazionale Antimafia: la quale, com’è noto, è oggi guidata da un uomo di altissima levatura umana e professionale, qual è Franco Roberti, a cui mi lega un ormai antico rapporto di stima, amicizia e consuetudine, che pone al servizio di tale istituzione non solo la sua pluridecennale esperienza di magistrato (e anche, nei suoi primi anni di carriera, di poliziotto), ma anche le sue rare doti di cultura, umanità, equilibrio. E dobbiamo essere grati a Roberti per avere voluto condividere con un vasto pubblico alcuni punti essenziali del suo lavoro, attraverso la pubblicazione di un libro di estremo interesse: Il contrario della paura. Perché terrorismo islamico e mafia possono essere sconfitti (Mondadori). Un testo che si legge come un romanzo, col quale l’autore ci permettere di apprendere da vicino alcune delle modalità di svolgimento del suo lavoro, nonché di confrontarci con alcune sue considerazioni personali di grande rilievo e importanza, che ci riguardano tutti da vicino, essendo tutti coinvolti nella comune esigenza di fronteggiare la minaccia della criminalità organizzata, sia di natura terroristica che mafiosa.
L’essenza del discorso di Roberti, come si evince dallo stesso titolo del volume, è un invito a non cedere alla paura, nella convinzione che la battaglia, alla fine, potrà essere vinta, a condizione che tutti (magistratura, polizia, istituzioni, politica, scuola, informazione, autorità religiose, cittadini) facciano la propria parte, avendo chiaro che si tratta di una guerra di lunga durata, che richiede sacrifici, impegno, costanza, e non prevede scorciatoie, facili soluzioni sbrigative, tanto radicali quanto inefficaci, come quelle sbandierate da alcuni politici che soffiano sul fuoco della paura e dell’irrazionalità, invece di fare appello alla forza della ragione. Non bisogna prendersi in giro, bisogna innanzitutto fare una battaglia di verità (“perché la verità è una grande libertà, è una difficile libertà”, ed è “il contrario della paura”), individuando le minacce lì dove sono veramente, e colpendo lì dove bisogna colpire, senza “sparare nel mucchio” e senza inutili confusioni e generalizzazioni.
Per quanto riguarda specificamente il problema del terrorismo islamico, molto interessante quanto Roberti osserva a proposito dell’analisi, da lui condivisa, di Oliver Roy, secondo cui, più che di una “radicalizzazione dell’Islam”, si dovrebbe parlare di una “islamizzazione della radicalità”, nel senso che oggi le pulsioni radicali di una serie di soggetti non inquadrati, per diverse ragioni, nell’ordine costituito (sbandati, emarginarti, ma anche persone caratterialmente violente, frustrate, annoiate dalla vita ‘normale’) trovano nell’Islam “una sorta di ‘vestito’, di giustificazione”. Tale analisi trova molte conferme negli identikit degli attentatori, il cui rapporto con l’Islam è spesso molto superficiale: l’autore della strage di Nizza, per esempio, era un semplice sbandato, che beveva e non andava mai in moschea, a che, a un certo punto, ha visto la possibilità di una svolta eclatante, distruttiva ed eroica, per un’esistenza ritenuta squallida e inutile. L’Islam è sembrato offrirgli un orizzonte di senso, e lo ha sfruttato, così come, negli anni di piombo, tanti giovani italiani annoiati, anche di buona famiglia, hanno scelto di uccidere e di morire in nome del comunismo, spesso senza avere letto neanche un solo rigo di Marx o di Gramsci. È quanto mai urgente, perciò, che il mondo islamico si impegni a isolare completamente questi soggetti, sottraendo loro ogni falso pretesto ideologico, così come i comunisti italiani (alquanto in ritardo, va detto, e non senza ambiguità e reticenze) si impegnarono a isolare i nostri brigatisti.
Ma il libro di Roberti offre tanti altri spunti di riflessione, di cui non è possibile, in questa sede, riferire. L’invito è a leggerlo, anche perché è una salutare iniezione di fiducia e ottimismo, anch’esso, un quanto tale, “il contrario della paura”. E ne abbiamo molto bisogno.
Francesco Lucrezi, storico
(20 luglio 2016)