RiMEIScolando – Trieste ebraica
Ed eccomi a Trieste, città che sognavo da anni di conoscere. Mi accoglie una giornata splendente, il meglio dell’estate. Basta guardare il mare e il golfo che svanisce nell’Istria per cogliere il carattere di questa comunità ebraica cosmopolita, la più europea e la più mista di tutto l’ebraismo italiano. Finalmente ci approdo grazie a Redazione aperta e a Guido Vitale, ma l’esperienza si allarga. Nel Museo ebraico a nome di Carlo e Vera Wagner, riallestito con efficacia da circa un anno, mi colpisce il salto cronologico dal 1300 (primo periodo in cui viene accertata la presenza degli ebrei a Trieste) al 1700. Trieste chiude i suoi ebrei nel ghetto tardi, a fine ‘600. La sua vita ebraica si articola e si arricchisce soprattutto con il potenziamento del porto e con l’emancipazione nel XIX secolo. A farmi da guida in modo appassionato è Ariel Haddad, triestino per scelta (e per matrimonio) da molti anni.Il suo racconto viaggia dentro la storia e dentro la vita ebraica. Divaghiamo tra Spinoza e Luria, tra Shaddal e Benamozegh, tra irredentismo, fascismo e sionismo.
Resto delusa di fronte alle foto delle tre sinagoghe di Trieste, fatte demolire con gran parte del ghetto dalle autorità cittadine fasciste negli anni Trenta del ‘900, per “risanare” un’intera area della città, senza che gli ebrei si potessero davvero opporre. Mauro Tabor, attivo assessore alla cultura della comunità, mi parla di alcuni dei loro arredi, che andrebbero restaurati. Sono convinta che questo sforzo sia necessario. E quando più tardi vengo accompagnata nelle poche strette vie di quel che resta del quartiere ebraico (quasi un ghetto fasullo, con qualche ristorante e qualche vecchio rigattiere), mi viene una grande tristezza.
In Piazza dell’Unità, che i triestini chiamano ancora Piazza Grande, con quella sua magica apertura sul mare, quasi inciampo sotto il sole cocente sulla scritta che ricorda che “il 13 settembre del 1938 Mussolini scelse questa piazza per annunciare l’emanazione delle leggi razziali antiebraiche macchia incancellabile del regime fascista e della monarchia italiana”. Penso con angoscia a cosa ha significato quell’annuncio per tutti noi. La sera, quando torno con una luce migliore (delle lampade) a fotografare la scritta, accompagnata da un gentilissimo Livio Vasieri, ci trovo seduti due ragazzi molto trasandati con la chitarra, assolutamente ignari della storia. Premio a questa delusione è una inaspettata visita notturna alla sinagoga di Trieste, che mi sorprende per la sua grandezza e per quanto, da dentro, somigli un po’ al Tempio maggiore di Roma. Ci entriamo grazie a Liora Misan, israeliana adottata da Trieste, che ha le chiavi e ci accende tutte le luci in mezzo quasi alla notte. Grazie per questo regalo.
Partendo all’alba, ripasso in rassegna, nella mia testa, il piano superiore del Museo, che rende omaggio a scrittori e poeti, editori e industriali, scienziati e visionari vissuti a Trieste. Scelgo di ricordare due donne, perché mi hanno ispirata nella vita: Flora Randegger Friedenberg (1824-1910) educatrice, traduttrice, viaggiatrice e filantropa; e Rachele Luzzatto Morpurgo (1790-1971), poetessa ed ebraista, cugina di Shaddal. Mi ha sempre impressionato il loro entusiasmo per la lingua ebraica e la loro concezione moderna di una vita ebraica piena, vissuta con coraggio al femminile. L’arrampicata Via del Monte, dove sorge il Museo, e dove c’è ancora una scuola ebraica, è quella cantata da Umberto Saba. Mi sono emozionata a sbirciare dalla porta chiusa la sua libreria, ancora identica a come ce l’ha lasciata descritta. Sul Ponte Rosso, che attraversa il canale, mi sono imbattuta nella statua di James Joyce, che qui ha scritto l’Ulisse. E poi ecco Italo Svevo. Un confine del mondo Trieste, o meglio un confine tra i mondi, che ci ha dato così tanto. E che per noi ebrei ha rappresentato perfino un primo varco verso Sion, quando l’Europa ci ha traditi e qualcuno è riuscito a salpare per altrove.
Allontanandomi, scorgo Trieste dalla costa, improvvisamente così piccola di fronte alle montagne carsiche che entrano in Slovenia, e così circoscritta a confronto delle lunghe lingue di terra che disegnano altrettante lagune. Così multietnica. Così città a parte. Come i suoi ebrei.
Simonetta Della Seta, Direttore Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah
(20 luglio 2016)