Il sultano vince sul califfo
Scoprire che Recep Tayyip Erdogan, oramai conosciuto anche come il “sultano”, sia un poco refrattario sul versante della democrazia e dei diritti umani, è come sorprendersi che l’acqua, quando va bollendo, possa scottare. Lo si sapeva, lo si tollerava, lo si mitigava sulla scorta di un patto ferino e faustiano che, tra le altre cose, implicava anche una divisione dei compiti: a te la gestione di una parte non secondaria della scottante questione dei profughi e dei rifugiati, a noi l’accettazione delle molte ambiguità che sono il carattere costitutivo del tuo esercizio politico, che ora si fa dominio aperto, a pieno titolo. Sulle vicende di questo ultimi dieci giorni, a partire dal “golpetto di stato” abortito indecorosamente nel volgere di alcune ore, se ne sono già dette e scritte a bizzeffe. Ancora si dirà e si scriverà, essendoci corposa materia al riguardo. Le analisi si sprecano, alimentate soprattutto dai rumors e dai gossip che ineluttabilmente si accompagnano alle cose di interesse collettivo, soprattutto quand’esse si fanno incerte o dubbie. Alcune valutazioni di merito sono plausibili poiché bene informate, altre costituiscono invece solo un ulteriore aumento dei decibel che si accompagna allo condizione di cacofonica confusione, oltreché di opacità totale, che un colpo di mano politico e militare può portare con sé, almeno in un primo tempo. Autogolpe per alcuni; tentativo fragile e incerto per responsabilità di certe componenti dell’esercito, secondo altri (nel qual caso, alla fine della fiera, un autogol); messinscena integrale per la parte restante degli spettatori. Rimane il fatto, comunque la si pensi, che la notte turbolenta che ha visto alcuni reparti delle forze armate turche occupare, peraltro con scarsa solerzia e manchevole determinazione, posizioni pubbliche e arterie di traffico perlopiù ad Ankara e Istanbul, abbia nei fatti consegnato ad un Erdogan incattivito se non truce (del quale si diceva volasse nel mentre per i cieli dell’Europa alla ricerca di rifugio, parlando ininterrottamente attraverso un iPhone, per poi repentinamente atterrare e riprendere in mano il controllo della situazione), la possibilità di scatenare una repressione che ora sta colpendo l’intera società turca. Quanto meno quelle parti che si ritengono non allineate con il volere del sultano neo-ottomano. Cosa da ciò ne conseguirà per davvero, a parte la sistematica violenza di stato contro tutte le opposizioni, annichilite indistintamente, nonché la quasi certa re-islamizzazione delle istituzioni pubbliche, saranno i tempi a venire a potercelo concretamente dire. Senz’altro, come dimostrano anche le liste di proscrizione che già da tempo dovevano essere state compilate, un piano di “normalizzazione” della Turchia era comunque nelle intenzioni prima che si consumasse la cesura di una notte folle e, per alcuni aspetti, incomprensibile. Senza scadere nel complottismo gratuito, rimane il fatto che il fallito colpo di mano voluto da una parte dei militari più che avere pregiudicato o ridimensionato il potere del “presidente eletto dal popolo” lo ha semmai corroborato. Può ora dedicarsi alla cura della “Cara Nazione” (così nel linguaggio orwelliano della presidenza) in un clima gravido di rabbie, timori ma anche sospetti e desideri di vendette. Ai margini di questa bruttissima situazione, che senz’altro riserverà altre sorprese di certo non piacevoli, aggiungiamo alcune considerazioni. La prima di esse rinvia a due analogie storiche, tra le diverse possibili, ancorché sui generis. Se ripercorriamo la storia recente l’impressione di trovarsi dinanzi ad un film già visto non è del tutto fuori luogo, fatte le debite differenze di merito e contesto. Da una parte c’è il tentato colpo di mano, consumatosi tra il 18 e il 21 agosto del 1991, nella declinante Unione Sovietica, che vide contrapposti, da una lato, il consorzio d’interessi tra il capo del KGB Vladimir Krjuckov, il ministro degli Interni Boris Pugo, il ministro della Difesa Dmitrij Jazov, il vicepresidente dell’URSS Gennadij Janaev, il primo ministro Valentin Pavlov, il capo della segreteria di Gorbaciov, Valerij Boldin, accomunati dal dichiarato intento di preservare l’Urss dall’insorgere delle rivendicazioni all’indipendenza nazionale, l’impedire un indebolimento del potere centrale nonché il preservare il primato del partito comunista; dall’altro lato, la coalizione dei “coraggiosi”, capitana da Boris Eltsin. Come le cose siano andate a finire, dentro una dinamica degli eventi, nel momento stesso in cui si consumavano, a tratti incerta, o comunque basata su azioni, quelle dei rivoltosi, fuori tempo massimo e comunque politicamente anacronistiche, si sa bene: il 6 novembre di quell’anno il Pcus moriva per sopravvenuta consunzione, venendo di fatto dichiarato fuorilegge, mentre entro la fine dello stesso anno la pencolante Urss sarebbe definitivamente scomparsa. L’intrinseca fragilità dell’atto di forza aveva già in sé gli elementi per decretare non solo il suo fallimento ma anche l’accelerazione della disintegrazione di ciò che, invece, i congiurati affermavano di volere difendere come beni e valori primari. Fondamentale fu, in quel caso, il ruolo giocato, con un’invidiabile abilità al limite della scaltrezza, da Boris Eltin, che tolse definitivamente il ruolo di protagonista non tanto ai grigi congiurati quanto a Michail Gorbaciov, allora ancora interlocutore privilegiato dell’Occidente. Una seconda analogia la si può riscontrare con i moti che due anni prima, nel dicembre del 1989, avevano portato al rovesciamento del satrapo romeno Nicolae Ceausescu. Da un lato, dinanzi all’erompere della protesta popolare, si era generata una situazione del tutto inedita nella Repubblica socialista di Romania, dove la camarilla di potere legata al dittatore si era trovata spiazzata dall’accelerazione dei fatti, impressa soprattutto dal loro sommarsi, trasformandoli in una specie di valanga. Dall’altro lato, il combinato disposto tra una piazza sempre più ribelle, la volontà di una parte delle élite di potere presenti (poi rigeneratesi sotto nuove vesti “democratiche”) e future, tra cui Dumitru Mazilu, Ion Iliescu e Petre Roman, di eliminare il problema senza esserne travolte (sacrificando Ceausescu, a quel punto figura ingombrante e pericolosa) e la mediatizzazione della manifestazioni, tra Bucarest e Timisoara, diede infine fuoco alle polveri. A “risolvere” il problema provvidero gli stessi uomini della sicurezza e degli apparati militari, che avrebbero dovuto preservare il regime e che invece, opportunisticamente ancorché provvidenzialmente, ne cassarono l’esistenza, non dimenticandosi di eliminare fisicamente il dittatore e sua moglie, a quel punto non solo decaduti ma anche pericolosi depositari di segreti di stato. Un elemento comune, tra questi eventi trascorsi e quello turco, è l’abile gestione politica che viene operata da una parte di quelle stesse classi dirigenti che, invece, avrebbero dovuto essere defenestrate o messe fuori gioco dai processi in atto: nel 1989 alcuni settori “modernizzanti” del Partito comunista romeno e una parte robusta dell’esercito colgono la palla al volo dei moti di piazza per eliminare il dittatore; nel 1991 un golpe fragile e pericoloso si traduce in una vera e propria eterogenesi dei risultati: via il Pcus, morte per consunzione politica dell’Urss, emarginazione di Gorbaciov; nel 2016, il colpo di mano militare sembra tradursi in una repentina ed insperata opportunità per il bersaglio principale, che in pochi giorni, dopo avere recuperato il controllo integrale della situazione, provvede ad una sorta di ordalia nella società turca. Detto questo, per rimanere al nostro presente, si possono aggiungere altre considerazioni. La prima di esse è che la copertura mediatica, ancora una volta in tempo reale, è servita la rafforzare la confusione più che ad orientare una qualche forma di reazione ragionevole. Questo sia laddove la frittata si stava facendo sia, soprattutto, tra gli osservatori internazionali, ovvero il grande pubblico televisivo e del web. Se vi è un dato che in quelle ore emergeva era lo stato di confusione totale, di cui i commentatori, a partire da quelli italiani, ne esprimevano a viva voce le proporzioni, annaspandovi come naufraghi in mare. Vedere, a conti fatti, non vuole dire capire. Non dinanzi a fenomeni che assumono proporzioni collettive di netta, brusca e brutale trasformazione, rompendo gli ordinamenti costituiti. Dispiace però riscontrare, ancora una volta, la particolare inadeguatezza di una parte delle reti “all news” in lingua italiana e a libera fruizione sulla piattaforma digitale, così come di quelle generaliste. Il problema non è attribuibile ai cronisti, che per turnazione occupano il non facile scranno di commentatori occasionali degli eventi in atto, ma dei cosiddetti “esperti” che in più di una occasione hanno rivelato tra strepitii, banalità e ovvietà assortite (tra le quali anche qualche tifoseria fuori luogo o apprensioni un poco sospette), di non riuscire a formulare un giudizio di senso compiuto. L’appunto riguarda non quanto stava avvenendo, in sé al momento comunque di difficile comprensibilità, ma ciò che già era avvenuto. Ovvero, le vicende che facevano da premessa e corredo agli eventi in corso. Non è un problema secondario perché una delle evidenze in molti di quegli atti di forza che, nel susseguirsi del tempo, sono poi destinati a mutare il corso della storia, è che essi non avvengono più nel solo antro segreto delle buie stanze o dei lunghi corridoi del potere ma in presa mediatica diretta. I richiami precedenti alle vicende della Romania e della Russia non sono quindi occasionali. In quanto il dramma, allora, si era consumato davanti alle telecamere, alle cineprese, alle macchine fotografiche. Oggi, più che mai, dinanzi agli smartphone e a tutti i supporti portatili di raccolta, elaborazione e trasmissione di dati. La dimensione politica si sovrappone e si confonde quindi con la sua raffigurazione mediatica, quasi si trattasse di una gigantesca “messa in scena”, nel senso letterale del termine: un dramma collettivo, vissuto ma anche recitato per un pubblico planetario che lo osserva comodamente da casa. Il ruolo degli “esperti”, in questo profluvio e diluvio di informazioni, spesso tra di loro sconnesse se non contraddittorie, dovrebbe essere quello di mettere ordine, offrendo delle plausibili chiavi di interpretazione. Non di eventi in sé ancora oscuri (a nessuno sono richieste doti oracolari) ma del contesto in cui letteralmente precipitano. Così invece non è stato. E proprio nel novero di questo riscontro disatteso cala la seconda considerazione non occasionale, rimandando alla natura, oltre che al ruolo, dell’esercito turco. Del quale e sul quale tutto si è detto fuorché alcune cose imprescindibili. Anche qui si impone una premessa di merito. In Italia la competenza sulle questioni militari è cosa pressoché sconosciuta. Tutta la partita relativa a eserciti, missioni di peacekeeping, armi e armamenti ma anche politiche militari sembra affidata alla fazionalizzazione dei giudizi politici, espressi a prescindere da qualsiasi cognizione di merito. Poche sono le voci competenti e perlopiù parte di quello stesso mondo militare che da certuni è ancora adesso osannato indefessamente e da altri, invece, demonizzato in maniera indiscriminata. Nel primo come nel secondo caso si tratta comunque di riflessi condizionati, che offuscano le residue capacità di giudizio. Sul fatto che l’esercito di Ankara sia stato, nel solco di una tradizione non occasionale né casuale, un’ossatura fondamentale del potere non c’è nulla da dire e neanche da aggiungere. Di per sé, tuttavia, ciò non spiega più di tanto. Che al suo interno vi siano (fossero?) della faglie di spaccatura lo abbiamo invece scoperto tra le schioppettate della notte del golpe. Dire “forze armate” non implica evocare un universo autoreferenziato. Ancora meno autosufficiente, rispetto ai continui rapporti e agli innumerevoli scambi con il mondo dei civili. Del tutto plausibile, infatti, è che a decretare il fallimento del colpo di mano siano state proprio quelle divisioni tra interessi non coincidenti che preesistevano all’atto violento in sé. I ribelli turchi hanno perso, dopo una lunga guerra di logoramento combattuta contro Erdogan e gli apparati a lui fedeli, di cui il colpo di mano è stato solo l’ultimo atto, anche per la più assoluta incapacità di dare seguito ad un’offensiva mediatica in grado di raffigurare quanto stava avvenendo in modo tale da coalizzare e canalizzare intorno alle proprie scelte un sufficiente grado di consenso. In tutta probabilità Erdogan, ben più scaltro e intelligente, lo ha invece capito in tempo reale, comportandosi quindi di conseguenza e vincendo la partita. Il suo stesso “volare” come un rifugiato politico nei cieli di non si sa quale continente, rimanendo in comunicazione costante con il “suo popolo” tramite un cellulare multimediale, drammatizzando in misura calcolata gli eventi, riempiendoli di significati da lui stesso gestiti, raffigurandosi infine come un lottatore vigorosamente presente sulla scena, sono elementi che hanno senz’altro contribuito a fare la differenza con quei reparti armati che, spesso nella propria inconsapevolezza di ruolo, era invece chiamati a realizzare un disegno politico opaco e incomprensibile ai più. Ne fa fede il fatto che alcuni tra i più importanti, a partire da quelle unità che costituiscono la componente turca di rapido intervento della Nato, non avessero aderito al moto eversivo. Così come il diniego della marina, forza probabilmente non decisiva sul piano strategico ma con un suo ruolo tattico e simbolico. In alternativa al vuoto di idee si è quindi sostituito, da parte dei nostri commentatori, l’ossessivo rimando alla centralità di un esercito raffigurato come entità unitaria e, al medesimo tempo, politicamente decisiva. Una sorta di potere “altro” o, addirittura, di contropotere, molto omogeneo al suo interno e in grado, nell’eventualità, di prendere il sopravvento sulla società turca. Così non è stato e, in tutta probabilità, non solo per l’imperizia degli ufficiali ribelli. Le forze armate di Ankara sono in realtà molto articolate al loro interno nonché frammentate. A fronte dei 412mila militari operativi, molti dei quali coscritti (più di tre quarti), e di poco meno di 380mila membri della riserva permanente, ve ne sono almeno altri duecentomila con funzioni di natura civile o di gendarmeria. Si tratta essenzialmente di un esercito che tutela il perimetro del paese, controlla le aree di permanente instabilità, concorre, se a ciò richiesto, alla repressione dei moti indipendentisti curdi, partecipa alla gestione della questione dei rifugiati che per la Turchia è un problema di non poco conto. Qualcosa che se serve a stabilizzare non necessariamente rivela quell’autonomia assoluta che molti osservatori stranieri, evocando quasi come una figura mitologica il richiamo al «secondo esercito della NATO», vorrebbero volentieri attribuirgli. In generale gli standard operativi sono quindi molto contenuti, a parte alcuni reparti di eccellenza, abitualmente utilizzanti nel quadrante anatolico orientale e della Cilicia. Non a caso si sta discutendo anche ad Ankara per la transizione verso un esercito professionale, più efficace e, forse, anche meno oneroso economicamente. Attualmente le forze armate turche costano al contribuente 18,2 miliardi all’anno, pari al 2,2 per cento del Pil nazionale mentre, per intenderci, in Italia si spendono 23,8 miliardi, pari all’1,3 del Pil ed in Israele si arriva a 16,1 miliardi, corrispondenti al 5,4 del prodotto interno lordo. Non di meno, per quanto possa valere, il livello di militarizzazione globale, che dovrebbe misurare, in base ad alcuni indici di massima, il peso relativo dell’esercito nazionale rispetto al paese di appartenenza, mette al primo posto Israele, al sesto la Russia di Putin e solo al ventitreesimo la Turchia. L’Italia, per onore di cronaca, sta all’ottantesimo. Un altro indice, quello della potenza militare, colloca al primo posto gli Stati Uniti, al secondo la Russia, al terzo la Cina, all’ottavo l’Italia e solo al dodicesimo la Turchia. E così via. Si tratta del risultato di medie statistiche, che valgono per come possono valere, spesso in base al criterio con il quale le si intende leggere. Rimane tuttavia il riscontro che la visione della Turchia come di una società sotto il controllo dei militari si sta rivelando più che discutibile. Ben altro ordine di considerazioni, invece, è quello che scaturirà dalle mosse a venire di Erdogan e della sua accolita. Ma, a fronte delle epurazioni sistematiche in corso, compiaciutamente rivendicate e quindi esibite senza remore di sorta, ancora una volta all’insipienza delle interpretazioni, perlopiù basate sulla ripetizione di non pochi cliché, si accompagna l’afasia politica dei principali attori in campo. Salvo riservarsi, se le cose dovessero assumere una china ancora peggiore di quella già intrapresa, il diritto a piangere, in un lontano futuro, i morti altrui. A volere dire: vediamo tutto, comprendiamo qualcosa, facciamo nulla. Stiamo vivendo a tutti gli effetti una età dell’impotenza politica. Pane per i denti di uomini spregiudicati come il sultano, che guarda al califfo dicendogli: “come me non ce ne sono altri”. Non a caso, in Turchia, qulla divinità dei beoti che è divenuto il cosiddetto “popolo” gli tributa sommi onori. Tanto più quando fa piazza pulita delle opposizioni interne e minaccia la comunità internazionale. Si sa che le dittature hanno sempre due architravi: il terrore ma anche un certo qual consenso.
Claudio Vercelli
(24 luglio 2016)