Le scosse dell’animo

torino vercelliLo scenario che va configurandosi in questi giorni, riguardo alla tragedia causata dal sisma che ha colpito diverse municipalità dell’Italia centrale, non è quello di un “difetto” bensì di un “eccesso”. Come in una sorta di riflesso condizionato, del tutto spontaneo, molti cittadini si sono messi in moto, spesso con le migliori intenzioni ma senza nessuna precisa cognizione sul da farsi. Appelli, raccolte di denaro, richieste di convogliare risorse nei riguardi delle vittime ma anche donne e uomini che hanno cercato di raggiungere, di propria volontà, i luoghi sinistrati per “dare una mano”. Già da adesso le disponibilità alimentari, e quelle di capi di vestiario, parrebbero soddisfare le tante occorrenze del momento. Così le strutture e i sistemi di soccorso. Lo stesso si può dire delle strutture da campo di primissima accoglienza, al netto della infelici battute, ossessivamente ricorrenti, che vorrebbero stabilire un nesso competitivo tra terremotati autoctoni e profughi stranieri. Malgrado ciò proseguono le catene di raccolta, evidentemente motivate più da un bisogno di testimoniare che non da un reale rapporto tra richiesta e offerta. Va comunque bene così. Ciò che gli esperti – quelli veri, non gli improvvisati sismologi, gli studiosi di logistica da tavolino, tuttologi e polemisti assortiti di professione – segnalano, anche attraverso i social network, è semmai la necessità di garantire linee di comunicazione libere da inutili intasamenti. Transiti viari, contatti telefonici, spazi percorribili hanno un valore strategico, in questo come in altri casi. Così come mani inesperte, ancorché in buona fede, possono a volte causare maggior danno di mani assenti. L’affollamento di persone nei luoghi della tragedia non garantisce che chi si dovesse trovare ancora sotto le macerie venga liberato, vivo oppure, a questo punto assai più probabilmente, morto che sia. La gestione delle strutture di ricovero, non di meno, è cosa altrettanto impegnativa. Ad operare, in altre parole, debbono essere i professionisti, coadiuvati da un volontariato non occasionale. Ruoli nei quale non ci si improvvisa, men che meno durante le tragedie collettive. Lo testimonia lo stesso contributo professionale che Israele sta offrendo, sia per solidarietà che per verifica delle competenze proprie, ed altrui, nei momenti dell’emergenza. Una cosa, quest’ultima, indispensabile tanto quanto la condivisione solidale. Le catastrofi comuni costituiscono il punto più basso nell’esistenza di chi ne rimane vittima ma, per la parte restante della società, debbono essere anche l’elemento da cui partire per cercare di ridurre il più possibile i danni al presente e, nel medesimo tempo, porre le condizioni affinché non si ripetano o, qualora ciò dovesse rivelarsi inevitabile, producano un minore impatto e costi umani più leggeri e sostenibili. Non si tratta certo di cinico calcolo ma di ragionevole prospettiva che, a ben guardare, è parte stessa della nozione di solidarietà che si accompagna all’azione della Protezione civile come anche alla spontanea iniziativa dei privati. Nel novero delle cose in corso, è bene richiamare anche l’impegno dell’Unione e delle singole Comunità. Detto questo e andando oltre, viene da pensare che sul “bisogno di esserci” a prescindere, ossia di portare se stessi come “dono”, tralasciando il giudizio su chi eventualmente dovesse essere biecamente motivato solo da una sorta di Dark Tourism (“io c’ero, guarda i miei selfie!”), si dovrà tornare a riflettere. Si tratta infatti di un fenomeno che si ripete da tempo. Il rimando alla “catena della solidarietà”, al pari degli “angeli delle macerie”, che già circola nei network, rischia in questi casi di rivelarsi semplicistico, al limite di un espediente retorico o di un vuoto colloquialismo. Non spiega niente, semplicemente etichetta con una espressione ad effetto. Oggetto di comprensione, invece, al di là delle motivazioni strettamente individuali, è il bisogno collettivo di “fare qualcosa”, non importa quale cosa in concreto, quasi a volere dire che, malgrado tutto, in tale modo si vuole concorrere a ricucire una tela strappata, quella di una società che attraverso le tragedie di cui è vittima manifesta ancora un notevole senso di reciprocità e di vitalità. Non è protagonismo scenico ma un contarsi tra persone, dicendosi che è la cooperazione e non l’individualismo a fare la differenza. Anche per questo le ironie fuori luogo, i sarcasmi così come i complottismi, le spiegazioni monocausali e, ancora di più, gli esercizi di razzismo e di demagogia spicciola sono stati sanzionati, e continuano ad esserlo, dal disprezzo dei molti, intendendoli come espressione di un intollerabile sciacallaggio morale. Nello stesso discredito cade una comunicazione ossessivamente banalizzante, fatta tutta di immagini e parole informate al “dolorismo” di superficie, ad una “presa diretta” che cerca la sensazione a qualsiasi costo. Essa infatti rivela di avere ben poco a che fare con l’informazione, semmai costeggiando una sorta di pornografia dei sentimenti. Si tratta essenzialmente di un circuito di raffigurazioni ripiegate su di sé, che fingono di volere documentare mentre invece frantumano quel che resta del pudore residuo. Un modo di comportarsi che è simile, per alcuni aspetti, quanto meno per quelli simbolici, agli effetti dello stesso sisma: chiedere ad una persona, la quale abbia perso da poco uno o più dei sui congiunti, che cosa stia “provando”, non è poi così diverso dal panorama di case letteralmente sezionate in due, dalle quali vediamo pendere sconsolatamente brandelli di ciò che era, fino ad un momento prima della scossa, parte integrante della vita privata altrui. La cognizione di queste cose sembra quindi segnare una linea di netta separazione tra chi condivide, anche con accenti e da posizioni molto diverse, il bisogno di trovare nella tragedia la forza di rigenerare una dimensione solidaristica, e chi, invece, la rigetta, preferendo semmai sprofondare nei luoghi comuni che, peraltro, circolano a profusione, conditi da un livore che riesce sempre a superare se stesso.

Claudio Vercelli

(28 agosto 2016)