La storia nazionale
e quella nazionalista

vercelli Le cronache ci informano che il governo polacco in carica, per il pensiero e la voce della premier, la signora Beata Szydło, intende ricorrere alle vie di fatto rispetto all’inveterata abitudine di definire Auschwitz (il cui nome in polacco è Oświęcim, tanto per mettere le cose al loro posto, anche se Lager e municipalità sono sempre state due cose molto diverse) in quanto “campo polacco”. Si tratta, per l’appunto, di una fastidiosa, ambigua se non perniciosa prassi, spesso abitualmente utilizzata nel linguaggio di senso comune. L’associazione diretta e la sovrapposizione immediata tra collocazione geografica dei siti (in nessun modo casuale, essendo stata accuratamente scelta dalle autorità naziste a partire dal 1940, nel mentre andava definendosi, passo dopo passo, la natura della “soluzione finale della questione ebraica” al pari del trattamento da riservare ai territori dell’Est europeo in via di occupazione militare da parte delle armate di Hitler) e il disegno politico dello sterminio, rischia di rinnovare diffusi cortocircuiti mentali e di giudizio. Segnatamente, la stessa Szydło, vicepresidente del partito Diritto e Giustizia, che ha vinto le elezioni politiche dell’ottobre del 2015, è originaria di Oświęcim. Forse è un particolare irrilevante, forse no. Sta di fatto che l’attuale esecutivo ha presentato in Parlamento una bozza di legge che giunge a punire severamente, anche con la traduzione in carcere, chi dovesse fare ancora ricorso pubblico a tale dizione. La cui erroneità, a detta dei ricorrenti, non è solo storica ma anche politica e morale. In tutta probabilità il disegno di legge governativo sarà approvato con relativa facilità e a breve. Nel parlamento bicamerale il partito della premier, Prawo i Sprawiedliwość, abbreviato in PiS, ha una buona maggioranza (235 seggi su 460 al Sejm, la Camera dei deputati e 61 su 100 al Senato). Per inciso, la sua collocazione politica è ancorata ad un centro-destra molto sbilanciato a destra, rifacendosi al conservatorismo sociale, ad una visione nazionalista, all’euroscetticismo e alla “centralità delle istituzioni tradizionali”, tra le quali la Chiesa cattolica. Alcuni osservatori, e molti critici, ritengono l’attuale maggioranza governativa fondamentalmente populista e tendenzialmente illiberale. Si tratta di un giudizio politico che, come tale, può essere condiviso o meno. Tuttavia è certo che in quest’ultimo anno, da quando il PiS è al governo, ossia dall’ottobre dell’anno scorso, tensioni e preoccupazioni si sono moltiplicate. Si è passati dalle note diplomatiche contro i “commenti antipolacchi” attribuiti ad alcuni partner europei, invero preoccupati per la piega assunta dai processi decisionali posti in essere dall’esecutivo, alle diffuse proteste, anche nella stessa Polonia, contro le nuove leggi di ispirazione governativa. Così nel merito di quella sui mezzi pubblici di informazione (un diffuso network che comprende quattro reti televisive e circa duecento canali radiofonici, la cui dirigenza è adesso nominata dal governo nella persona del ministro del Tesoro), nonché nel merito della riforma del Tribunale costituzionale (un organo dello Stato al quale compete il giudicare in materia di conformità alla Costituzione delle leggi approvate dal Parlamento), insieme a molti provvedimenti minori ma a forte impatto collettivo, laddove i critici vedono una forte piegatura agli interessi dell’attuale maggioranza di organismi di controllo che, per la loro delicata natura, dovrebbero invece rimanere imparziali. Non di meno, altra accusa mossa a Diritto e Giustizia è quella di cavalcare le campagne contro la cosiddetta “ideologia gender” per limitate l’autonomia e i diritti delle donne, arrivando gradualmente a vietare l’aborto, i percorsi di educazione sessuale, le tutele contro la violenza di genere e domestica. Cosa c’entra tutto ciò con il divieto, e la conseguente sanzione penale a venire, qualora si “sbagli” la denominazione geografica di Auschwitz? C’è in fondo un non troppo sottile tratto d’unione che si situa nella crescente ossessione punitiva, altrimenti definibile come proibizionista, nei confronti di quei fenomeni sociali che sfuggono ad una loro gestione civile e culturale consensuale. Per meglio dire, alla fine del lungo percorso sul “dovere della memoria”, sulla necessità del ricordare il passato per costruire un futuro migliore, sulla cognizione della storia comune come elemento della cittadinanza europea, quel che ritorna come tentazione piuttosto diffusa è di passare oltre alla dimensione persuasiva, imponendo con la minaccia, senza quindi darsi troppa pena di dovere convincere, una qualche versione dei fatti. Giusta o sbagliata che sia. Poiché il vizio sta nel metodo più che nel merito. Atteggiamento, quest’ultimo, che se confermato, rischia nei tempi a venire di ribaltare proprio quanto ci si è invece sforzati di fare in questi anni di grande lavoro. Lo si desume dalla sproporzione tra una pure irritante e antistorica ricorrenza di pregiudizi generalizzanti (tra i quali la convinzione che se certe cose sono state fatte in Polonia e nei paesi dell’Est europeo è perché la compromissione delle società locali fosse non solo molto diffusa ma pressoché corale, istituendo così una equazione tra popolazione e collaborazione con i nazisti) e il ricorso alla galera come unica via di soluzione al loro rinnovarsi. La qual cosa si porta con sé il rischio di non poche complicanze e implicazioni, tra le quali la costruzione di una sorta di “memoria di Stato” che si sostituisce, sovrapponendosi e imponendosi da subito, alla “public history” e alla discussione tra l’opinione pubblica, finendo con il determinarne a priori contenuti e obiettivi nonché spazi e vincoli di libertà di ricerca e comunicazione. Ad essa si associa la tentazione, presente un po’ ovunque ma da certe forze politiche europee espressa con particolare forza, di sostituire alla riflessione critica un insieme di attestati fideistici, non importa quanto (e come) supportati da riscontri nei fatti, insieme all’insofferenza, sempre meno celata, verso l’altrimenti necessaria comprensione della complessità del passato, dove coni d’ombra, ambiti di compromissione, “zone grigie” si intervallavano a nette opposizioni, a limpidi sacrifici e a dichiarati dinieghi. La questione della collaborazione, e del collaborazionismo, con le forze occupanti dell’Asse nell’Est europeo rimane, da questo punto di vista, un terreno scivoloso poiché non demanda al solo passato, ai trascorsi ma anche e soprattutto al modo con il quale i partiti e i movimenti politici dell’oggi valutano la storia nazionale per dare un senso e una legittimazione all’identità collettiva odierna. Sempre per rimanere in Polonia, la vicenda di Jan Tomasz Gross, docente di storia all’Università di Princeton, è di per sé emblematica. La pubblicazione nel 2000 della sua ricerca sul massacro della popolazione ebraica del villaggio di Jedwabne, durante l’occupazione tedesca ma per mano dei connazionali polacchi, ha dato fuoco alle polveri di una lunga polemica. Così come anche la sua opera successiva, dedicata all’antisemitismo in Polonia dopo Auschwitz. Giudizi discordanti, anche per la radicalità di certe affermazioni dell’autore, offerte con un certo gusto sensazionalistico alla grande pubblicistica. Nel 1996 Gross aveva comunque ricevuto l’Ordine al merito della Repubblica di Polonia, massima tra le onorificenze civili. Come tale, era considerato e ritenuto uno studioso di indiscutibile rilievo. Le nuove polemiche sul suo ultimo libro, recentemente firmato insieme a Irena Grundzinska Gross ed uscito anche in Italia con il titolo Un raccolto d’oro: Il saccheggio dei beni ebraici, hanno indotto il presidente polacco Andrzej Duda a considerare la possibilità di ritirare il riconoscimento attribuitogli con tutti gli onori del caso vent’anni fa. Contro questa eventualità si sono espressi diversi studiosi, soprattutto statunitensi, ritenendo che non sia compito delle autorità pubbliche sanzionare aprioristicamente il grado di accettabilità, e quindi di legittimità, dei risultati della ricerca storica. Gross, nel mentre, era stato chiamato dalle autorità polacche ad una audizione, tenutasi infine a Katowice il 14 aprile scorso. Durata diverse ore e svoltasi a porte chiuse, nel corso della stessa l’autore è stato interrogato su molte delle sue affermazioni, a partire da quella per la quale durante l’occupazione tedesca “i polacchi hanno ucciso molti più ebrei dei tedeschi”. I risultati del confronto non sono ancora di pubblico dominio. Sta di fatto che l’intera questione, al di là di come verrà risolta, pare avere ad oggetto assai poco la ricostruzione dei fatti, semmai rimandando alla questione, estremamente problematica ma anche fonte di irrisolti imbarazzi politici, del rapporto che si deve intrattenere con le immagini che il passato ci restituisce di sé. È allora significativo che ad avere aperto un nuovo terreno di conflitto sul passato, e sulla sua fruizione nel discorso pubblico, non siano state le forze politiche liberaldemocratiche, centriste o socialiste ma quell’ampio novero di soggetti emersi in questi anni dalla crisi dei processi d’integrazione europea, tra i quali lo stesso PiS dei gemelli Lech e Jarosław Kaczyński. In quanto dietro a quest’ordine di prescrizioni non c’è il bisogno di ricordare, funzione in sé complessa, ma la necessità, quasi angosciata, di selezionare frammenti di ciò che fu in maniera molto selettiva e, soprattutto, a tratti quasi coercitiva. In accordo con la visione che si ha della società da governare.
Claudio Vercelli