Le parole per non dirlo

torino vercelliScriveva Karl Kraus, uno dei maggiori letterati in lingua tedesca del primo Novecento, morto nel 1936, evitandosi in tale modo lo scempio dell’arrivo dei nazisti due anni dopo, tra le ali di festanti folle viennesi: “Su Hitler non mi viene in mente niente. Sono consapevole di essere rimasto con questo risultato, frutto di tanto pensare e di tanti tentativi di comprendere gli eventi e la loro forza motrice, molto al di sotto delle aspettative. Perché queste erano forse eccessive nei confronti dello scrittore polemico al quale per un equivoco grossolano si richiede quella prestazione solitamente chiamata “presa di posizione” e che, ogni qualvolta un male ha urtato anche solo relativamente la sua sensibilità, ha fatto quel che si definisce “tenere testa”. Ma ci sono mali di fronte ai quali questa cessa di essere una metafora e il cervello, che è dentro la testa e che ha la sua parte in tali azioni, si considera incapace di qualsiasi pensiero”. Si tratta di una citazione tratta da “La terza notte di Valpurga”, un libro di Kraus, fine satirico e grande pubblicista, scritto tra il maggio e il settembre del 1933. Rimanda alla presa del potere da parte di Hitler e del nazismo in Germania. Chissà perché quelle parole tornano in mente. Certo non per stabilire improbabili analogie tra il passato, soprattutto quel passato, e il presente che ci chiama in causa, bensì per osservare come lo stile politico dell’intolleranza si faccia sostanza che rinvia comunque ad aspetti del tempo trascorso. È vero, va riconosciuto: la “reductio ad Hitlerum” (oppure ad nazium., intendendo con ciò la tattica che azzera ogni affermazione comparandola e rapportandola ad Hitler e al nazismo) è un espediente retorico ed una fallacia logica (quindi, a ben pensarci, una tentazione permanente) che non può essere utilizzata per spostare il campo dell’argomentazione dal merito dei problemi alla demonizzazione preventiva degli avversari, se non addirittura degli stessi interlocutori. Poiché è parte del medesimo dispositivo calunnioso che i fascismi (e non solo essi) utilizzavano a loro tempo: non rispondo a ciò che mi chiedi o mi dici, affermo perentoriamente che sei un farabutto. Così non debbo impegnarmi in alcuna contro-argomentazione, non avendo peraltro strumenti in materia, ma ti spiazzo in pubblico, delegittimandoti integralmente. Come individuo, prima ancora che per ciò che puoi avere detto: non sei degno delle tue parole, quindi esse non hanno valore. Tutto ciò vale anche per quanto stiamo vivendo e condividendo. Non si commetta quindi l’errore di leggere la condotta di certe forze politiche solo nei termini di una maniacale ripetizione del totalitarismo, fosse anche in forma più ingentilita. Rimane il fatto, tuttavia, che il passato ci consegna non un tracciato destinato inesorabilmente a ripetersi quanto dei segmenti e delle tracce sulle quali costruire il senso del presente. Vale la pena di ripetersi: si tratta di un lavoro di interpretazione, non di ossessiva assimilazione di ciò che è a quel che fu, per sentirsi magari confermati nei propri pregiudizi. Dopo di che, il reiterarsi di modi, atteggiamenti, toni, stili e parole tutti basati su una intransigenza di principio che è solo intolleranza di fatto, ha il suo rilievo. Così come il maniacale rimando ad una sola questione (l'”onestà”) dalla quale peraltro ci si sente in diritto di derogare per se stessi quando si è chiamati a riscontro. Il vero nocciolo non è l’eventuale vocazione truffaldina degli uni, tutta da dimostrare (con l’inciso che il ladro, del pari al pifferaio, quando vuole farsi consegnare consensualmente il portafoglio altrui, di sé dirà le migliori cose, presentandosi come una guardia incorruttibile e non certo per quel che è o potrebbe diventare), ma il connubio tra livorosità – intesa come autentico stato delle proprie emozioni, da condividere con altri “uguali a me” perché giustamente arrabbiati, quasi che i legami sociali fossero oramai fondati non sulla speranza comune ma sull’avversione verso un qualcosa o qualcuno – e propensione a concepirsi come una comunità d’amore, oltre la quale c’è solo il deserto dei farabutti, degli apostati, dei “senza legge” (quella però dettata dal gruppo), dei “senza dio”, dei traditori e così via. E qui viene fuori un problema di fondo: se non si gestiscono i conflitti e non si condividono le risorse in un regime di democrazia sociale, quindi inclusiva, prima o poi qualcuno va all’incasso dicendo: io sono la totalità, il resto è niente. Come tale, quel “resto” non ha diritto di cittadinanza. In questo, la presenza in Europa di formazioni politiche cosiddette populiste ci segnala che la più completa mancanza di confronto politico, inteso come lotta in campo aperto tra opzioni e progetti contrapposti per una legittima trasformazione delle società, sta diventando un problema ingestibile, destinato a segnare il possibile declino di quel che resta delle nostre democrazie. Non è una questione di mero galateo della comunicazione, è un profondo problema di coesione sociale. C’è chi la sta picconando e con grande gusto. Poiché chi rompe, in questo caso, non paga ma si fa pagare, con l’unico soldo che gli esclusi ritengono ancora di avere, quello del voto per rabbia, rancore e demotivazione. Se non si risponde a questi ultimi, al loro disagio, allora non ci saranno più parole per dire qualcosa di sensato. Prima o poi; forse più prima che poi.

Claudio Vercelli

(11 settembre 2016)