…appello

SISO. “Save Israel. Stop the Occupation”: “Salva Israele. Metti fine all’occupazione” è l’appello senza precedenti che cinquecento intellettuali israeliani hanno firmato e diffuso in questi giorni, rompendo un silenzio angosciante e aprendo le porte a un dibattito che potrebbe diventare uno dei momenti di maggiore lacerazione all’interno dell’ebraismo israeliano e diasporico.
Il rilievo e la serietà dell’appello non sono sottovalutabili. L’hanno firmato scrittori come David Grossmann, Amos Oz e Orly Castel-Bloom, l’hanno firmato la cantante Noa e il regista Amos Gitai, l’hanno firmato personalità che hanno e hanno avuto ruoli centrali nella vita culturale, politica e militare di Israele: professori universitari, ministri, generali, ambasciatori. Insomma, non gente che si possa sospettare desideri la fine di Israele o aspiri a metterne in pericolo la sicurezza. Comunque si vorrà giudicare questo appello, non ci si potrà nascondere che apre una falla nelle certezze dell’attuale politica israeliana, la politica dell’occupazione o, secondo altra visione, della riappropriazione dei territori della grande Israele di biblica memoria.
Ci sarà senza dubbio chi la dichiarazione di SISO la vorrà considerare una provocazione, liquidandola con una battuta polemica. Ma non si può negare che sia un forte segnale lanciato da una parte della società israeliana che, al di là di singole voci, fino ad ora aveva esitato a farsi sentire, forse per la consapevolezza di essere minoritaria, forse per timore di provocare lacerazioni insanabili. Ma la lacerazione insanabile c’è sempre stata, è lì sanguinante fin dall’assassinio di Itzchak Rabin. Un sangue che né la terra né il tempo hanno mai ricoperto.
Certo, non si può dimenticare che la visione politica di Netanyahu è quella che, nelle condizioni attuali, gode dell’evidente favore della maggioranza degli israeliani; non si ha tuttavia il diritto di liquidare con sufficienza la critica di un’opposizione che, con altrettanto senso dello stato e con altrettanta preoccupazione per il futuro del paese, non condivide l’analisi politica del governo in carica e richiama a ideali mai sopiti che sono stati alla base della fondazione dello stato.
Non so se il destino migliore di Israele sia quello presente, con le terre occupate, il complesso dell’accerchiamento, la solitudine internazionale, l’antisionismo e l’antisemitismo montanti. E non sarei neppure disposto a giurare che la giusta fine dell’occupazione non possa rivelarsi, alla fine, un atto di generosità inutile e una dolorosa illusione, con il rischio che si ritorni a quell’antico cul de sac da cui palestinesi e paesi arabi non hanno mai avuto interesse di uscire. Nel cul de sac politico ed etico, tuttavia, al momento è proprio Israele. Ed è Israele che può fare la prima mossa per uscirne, costi quel che costi, per garantire a se stesso la salvaguardia del proprio spirito umanitario, l’affermazione dei principi etici su cui ha fondato la propria identità, la propria indipendenza, la propria democrazia. Per riconoscere, nell’irrinunciabilità dei propri diritti, i diritti inalienabili dell’altro.
È questa l’Israele che l’ebraismo vuole ritrovare, è questa l’idea per la quale l’ebraismo è disposto a rinunciare, a battersi, a intervenire, a giocarsi anche le proprie certezze e le proprie sicurezze. Come già nel passato.
Israele è fra due fuochi, come sempre: può rendere permanente la situazione di stallo, o può smuoverla in modo determinante con un atto di coraggio. E i palestinesi, a loro volta, dovranno fare una scelta a viso aperto, fra il terrore e l’accettazione, pur controvoglia, della pace.
Anche noi, nella diaspora, siamo presi fra due fuochi. Possiamo restarcene a guardare, pensando che la cosa non ci riguarda, che a decidere devono essere (giustamente) gli israeliani che in Israele vivono e votano. Ma possiamo anche, proprio per quell’amore (non facilmente comprensibile agli altri) che ci lega a Israele, sentirci di aiutare quelli che consideriamo nostri fratelli ad acquisire la sicurezza necessaria per una scelta audace, con tutti i rischi che essa comporta.
Non ci divideremo accusandoci reciprocamente di tradimento e autolesionistico odio di sé, o di oltranzismo e cieco fanatismo. Apriremo, ci si augura, un dibattito onesto sui pro e i contro, spaccheremo il capello in due, come è nostro uso, non per il gusto di combatterci e di avere la meglio sulla carta delle parole, ma per aiutare Israele a vivere nella sicurezza e nella giustizia, e a essere il paese che indistintamente amiamo.

Dario Calimani, Università di Venezia

(20 settembre 2016)