Mettersi al sicuro

Sara Valentina Di Palma A causa di una vita familiare abbastanza piena, in cui il numero dei panni da lavare in casa mia farebbe invidia ad una lavanderia professionale (chissà se anche a loro qualche calzino sparisce sempre misteriosamente, sospetto fagocitato dalla lavatrice, dando adito a ricerche perlopiù infruttuose), non frequento più molto Facebook se non per rispondere a messaggi privati dai quattro angoli della terra, ultimo dei quali la lieta nascita del nipotino israeliano di una cara amica, notizia che abbiamo accolto con grande gioia.
E tuttavia Facebook ultimamente mi ha arrecato anche grande dolore e un certo disappunto, quando tra le plausibili “amicizie” segnalate (difficilmente sono vere amicizie, penso, per la gran parte di noi, ma tuttalpiù conoscenze più o meno approfondite) ha indicato un amico sì carissimo, ma deceduto diverso tempo fa. Ora, è vero che anche chi non c’è più può esserci vicino in molti modi, e che una volta, in preda alla tristezza più profonda frammista ad ira nei suoi confronti per essere andato via, ho composto il suo numero di telefono e conservo ancora il suo numero in rubrica, ma questo va oltre, e l’ho vissuto come una stilettata inferta di soppiatto tra le scapole, all’improvviso.
Mi è tornato in mente leggendo la notizia relativa all’atleta con bassa visione (cosa leggermente diversa dal definirlo atleta ipovedente, come mi ha insegnato una amica: la disabilità non è una caratteristica della nostra essenza) il quale, insieme al secondo, terzo e quarto classificato nei 1.500 metri alle paralimpiadi di Rio, ha corso più veloce del campione che alle Olimpiadi aveva conquistato la medaglia d’oro, facendoci riflettere sui pregiudizi in merito alle disabilità e sulla forza di donne e uomini dalla volontà tenace nell’affrontare le proprie disabilità. Come Alex Zanardi, capace, dopo il terribile incidente automobilistico a seguito del quale ha perso entrambe le gambe, di accettare il mutamento e provare a rialzarsi, ma anche come chi tutti i giorni lotta silenziosamente per salire e scendere da un marciapiedi troppo alto o trovare un bagno accessibile ad una carrozzella.
Ci ho ripensato ancora pochi giorni dopo lo scorso venerdì, leggendo l’ultima Parasht HaShavua (la quale contiene diverse mitzvot su svariati argomenti), quando un arguto giovane lettore mi ha chiesto, a proposito del dovere di erigere una palizzata protettiva sul tetto della nuova casa casa affinché chi corre pericolo non cada (Devarim 22:8), se tale obbligo viga anche per chi abita solo ed è responsabile di se stesso soltanto. Intanto, ho pensato, non si dovrebbe abitare soli, ma ognuno dovrebbe crearsi una famiglia. Sì però non hai risposto, ha insistito lui. Vero. Non saprei.
Posso ipotizzare che anche chi è solo riceva visite in casa propria e non debba lasciare gli altri in pericolo, e la casa dovrebbe essere il luogo più accogliente e sicuro sia in senso materiale sia sul piano etico. Inoltre, ho aggiunto, il pericolo è in agguato anche per noi stessi, e porci al riparo dal rischio di cadere è nostro dovere.
Il ragazzo incalza, forse divertito dalla mia titubanza, forse preparandosi ad un futuro da cavilloso giurista, chissà, chiedendomi come possiamo sapere di poter essere in pericolo.
Spazientito gli risponde un altro ascoltatore, tagliando corto prima che sfumi la possibilità di finire lo studio in fretta e dedicarsi ad altre attività come, ahimè, i giochi sul tablet (lontani sono i tempi in cui il televisore, questo sconosciuto, veniva chiamato “cartoline che si muovono”), prima che entri Shabbat: ma tu non lo sai se puoi scivolare e quindi ti metti al sicuro comunque.
Al sicuro, ho pensato, anche dalle proprie debolezze, dalla paura di ferire gli altri per salvaguardare se stessi, dall’accollare su di sé ogni problema proprio ed altrui fino a quando non si sa come dipanare la matassa e si decide che l’unica soluzione è tagliare il filo. I pensieri si fanno gravi, meglio andare. La sposa Shabbat sta per arrivare.

Sara Valentina Di Palma

(21 settembre 2016)