… Israele

Preoccupati dal boicottaggio antisemita di Israele messo in atto dal BDS o tutti presi dagli sforzi di Netanyahu per far accettare dal consesso delle nazioni le sue azioni politiche, troppo poco ci interessiamo a quanto effettivamente succede in Israele e troppo poco trapela dalla stampa ebraica e non ebraica. Finisce allora che le nostre difese, così come le nostre critiche, risultino spesso scollegate dalla realtà viva e attuale del paese.
Le notizie che io stesso ho contribuito a diffondere la settimana scorsa sul movimento SISO (Save Israel. Stop the Occupation) non a tutti possono essere risultate gradite. Ossia non tutti sono, legittimamente, d’accordo con le posizioni di SISO. Questa è la democrazia. È evidente che SISO è solo un sintomo del disagio che percorre in questi tempi una parte della società israeliana e che dovremmo, pur tuttavia, conoscere. Come tale, almeno, dobbiamo prenderne atto e riconoscerlo.
Ma di sintomi ce ne sono altri. Commanders for Israel’s Security (Comandanti per la sicurezza di Israele) è un altro movimento, formato da ex-comandanti e responsabili delle forze di sicurezza israeliane – esercito, polizia, Mosad – che chiedono che si avvii con i palestinesi e con i paesi arabi un processo di consolidamento della sicurezza dello stato, perseguendo la soluzione ‘due popoli due stati’. La pace, affermano i ‘Comandanti’ sulla base della loro innegabile solida esperienza, non costituirebbe un rischio per la sicurezza, che Israele sarebbe in grado di garantire in ogni caso.
C’è poi Darkenu (La nostra via), un movimento politico di base, che si presenta come trasversale e, con un’azione di informazione porta a porta in tutto il paese, sensibilizza la maggioranza moderata e silenziosa per raccogliere adesioni attorno ad alcune proposte fondamentali: 1. un accordo per due stati, 2. Israele come nazione degli ebrei e stato democratico per tutti i suoi cittadini, 3. giustizia sociale e solidarietà civile, 4. sradicamento di ogni forma di discriminazione e di razzismo. Forte la carica emotiva del loro appello, rivolto a coloro che ‘vedono la divisione, l’estremismo e l’odio e non vogliono rimanere in silenzio’; e ancora: ‘Guardiamo i radicali che ci conducono a una società razzista, violenta, settaria e divisa e comprendiamo che se non ci riuniamo, se non facciamo qualcosa, perderemo il nostro paese’. È la voce di israeliani, questa, non la voce del nemico, o dell’antisemita.
Tutte le notizie su questi e altri movimenti le si trova facilmente in rete.
È giusto, ci si potrà chiedere, che se ne parli nella Diaspora? Io penso di sì. Più ne so e più ne capisco e con più convinzione mi sento di difendere i lati positivi e le acquisizioni del paese, e meglio posso identificarmi con le aspirazioni in cui io stesso più mi riconosco. Non voto in Israele e non ne decido quindi le sorti, ma posso almeno dialogare idealmente con Israele. È il mio modo di amarlo, e nessuno ha il diritto di metterlo in discussione, come io non metto in discussione i modi altrui. Sarebbe bello dialogare (e scontrarsi) sui contenuti, non sui modi.
È dunque un fatto che la società israeliana sta vivacizzando al proprio interno un dibattito a più voci che prova, una volta di più, il fermento spirituale e lo spirito democratico che la animano. È solo questa la dimostrazione di quanto sia viva la spinta morale del paese. Ed è così che comprendo meglio, oggi, il significato di ’Am Israel Chai.

Dario Calimani, Università di Venezia

(27 settembre 2016)