Periscopio – Fuori dal coro

lucreziTutti gli organi di informazione, come si è visto, hanno dato ampio risalto al recente, consueto incontro interreligioso per la pace di Assisi, promosso dalla Diocesi locale, dalla Comunità di Sant’Egidio e dalle Famiglie Francescane, in occasione del quale i rappresentanti dei vari culti si sono profusi in un profluvio di dichiarazioni di belle intenzioni. Abbiamo così sentito ripetere, in tutte le lingue, da autorevoli personaggi, rivestiti dei più diversi paludamenti religiosi, che le religioni, tutte, vogliono sempre e solo la pace, che ogni guerra di religione è una guerra contro la religione, che religione e guerra sono sempre inconciliabili, che chiunque usi la religione per fare la guerra compie peccato ecc.
Tante belle parole. Words, words, words, direbbe Shakespeare. Pur non volendo dubitare della buona fede e della sincerità della maggior parte delle persone che le hanno pronunciate, questo mare di zucchero, miele e panna montata mi ha lasciato un senso di disorientamento. Sono andato a riprendere i libri di scuola, su cui ho studiato da ragazzo, che parlano di una lunga e ininterrotta catena di guerre di religione, combattute da Adamo fino ai giorni d’oggi, e mi sono chiesto perché mai mi hanno insegnato tutte queste cose sbagliate. Come mai, se guerra e religione e sono teoricamente incompatibili, poi, all’atto pratico, risultano sempre così felicemente accoppiate? A usare la religione per la guerra, hanno detto da Assisi, sono poche, pochissime persone, che con la religione non c’entrano assolutamente nulla, anzi, che non sanno neanche cosa sia. Avrei dovuto tranquillizzarmi, dal momento che tutti si dicono così sicuri sul punto. Viviamo nel migliore dei mondi possibili, le religioni vegliano su di noi, sulla nostra pace, sicurezza e felicità. Ci sono, è vero, quei quattro gatti che usano la religione per fare la guerra, ma cosa mai potranno fare, da soli, contro tutto il mondo dei buoni e virtuosi? Sono pochi, pochissimi, ce lo hanno assicurato. Tutti sanno che non rappresentano nessuno, lo hanno giurato tutti, nessuno li potrà seguire, non contano nulla, fanno solo un po’ di folklore.
Tra le tante interviste che sono state trasmesse dalla televisione, ce n’è stata una sola, di pochissime parole, che mi è sembrata andare fuori dal coro, interrompendo la corale polifonia di arpe e violini. Un’interruzione che mi è parsa confermata dall’espressione dell’intervistato, che mi è sembrata un po’ meno lieta e felice degli altri, un po’ severa e accigliata. Cito a memoria la dichiarazione: “le religioni parlano di pace, ma alle parole devono seguire i fatti, altrimenti è una bestemmia”.
Propongo ai responsabili della manifestazione di assumere queste parole come logo per tutte le prossime edizioni dell’evento, di chiedere a tutti i rappresentanti delle religioni mondiali di farle proprie, di esibirle su enormi cartelli, di urlarle dai megafoni, di scriversele sulla fronte, di ordinare a tutte le moltitudini dei fedeli di recitarle, come un mantra, dall’alba al tramonto, per tutti i giorni della loro vita, e di cacciare a pedate tutti quelli che si rifiutino di farlo. Anzi, no, avrei un’altra proposta: l’anno prossimo gli organizzatori facciano una cosa diversa, annullando l’incontro, le conferenze, i sorrisi ecc. ecc., e, al posto di tutto questo, invitino tutti i rappresentanti delle religioni a compiere almeno un piccolo gesto concreto di pace. Un fatto, non parole. Quanto a cosa fare, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta: chiudere qualche scuola religiosa dove si predica la violenza, spegnere un sito internet propagatore di odio, licenziare qualche rappresentante di culto poco raccomandabile, aiutare la polizia a neutralizzare un terrorista che ammazza in nome di Dio ecc. ecc. Un qualsiasi, piccolo gesto, ma nel più assoluto silenzio, senza neanche mezza parola di commento, nessuna fotografia e nessun sorriso. Sarebbe davvero un bel gesto di pace. Un ‘fatto’, non una ‘parola’ di pace.
Dimenticavo di dire il nome dell’intervistato: Riccardo Di Segni. Vox clamantis in deserto.

Francesco Lucrezi, storico

(28 settembre 2016)