Qui Roma – Tradurre, oltre ogni barriera
La grande sfida dell’ebraico

29690102140_f6b9886903_o La traduzione come processo linguistico ma soprattutto filosofico, che implica una costante rilettura di testi millenari e anche il superamento di barriere culturali. Un concetto che si intreccia strettamente con le vicende dei testi sacri dell’ebraismo, e che dà vita a riflessioni sempre attuali che sono l’argomento del convegno in svolgimento al Centro bibliografico dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, dal titolo “Yafet nelle tende di Shem. L’ebraico in traduzione”, ideato e organizzato da Raffaella Di Castro.
Una sfida che nasce come risposta agli stimoli suscitati dalla recente traduzione in italiano del primo trattato del Talmud babilonese e dagli stimoli dell’ultima Giornata Europea della Cultura Ebraica, che aveva come tema “Lingue e dialetti ebraici”.
Ad aprire l’intensa due giorni, i saluti della presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, del segretario generale Gloria Arbib, dell’assessore ai beni culturali dell’Unione Gianni Ascarelli.
“Lo studio nell’ebraismo – afferma il presidente dell’Unione – è sempre anche traduzione, per riprendere il tema del nostro convegno: traduzione dal passato al presente, da una generazione all’altra, dal pensiero all’azione e viceversa, dalla legge alla sua applicazione”. Arbib sottolinea l’importanza di questo evento, anche in funzione di un ragionamento ampio sui temi sollevati che non può necessariamente risolversi nell’arco di una giornata ma costituire uno stimolo continuo alla riflessione. L’assessore Ascarelli, citando il caso di un antenato vissuto nell’Ottocento nella Roma papalina che si distende giovanissimo per il valore dei suoi studi, ricorda appunto come lo studio e il tentativo di comprensione di realtà diverse costituiscano una fonte inesauribile che accompagna la storia ebraica nel corso dei secoli.
A parlare sono poi Alessandro Finazzi Agrò, rappresentante del ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca all’interno del Consiglio d’amministrazione del Progetto di traduzione italiana del Talmud Babilonese, il suo rappresentante del CNR Mario Patrono, e Alessandra Veronese, direttrice del CISE “Michele Luzzati“ dell’Università di Pisa. Quest’ultimo istituto ha collaborato alla realizzazione del convegno insieme anche all’Università di Roma La Sapienza, l’Università della Calabria, il Centro ebraico Il Pitigliani e la casa editrice La Giuntina.
29356310144_46a1fa72b7_o “Il Talmud è un vero e proprio tesoro culturale – le parole di Finazzi Agrò – che deve essere diffuso attraverso la sua traduzione il più largamente possibile in quanto costituisce un patrimonio dell’umanità”. In questo senso la pubblicazione dei volumi in italiano costituisce per Patrono un “grande traguardo per gli ebrei nel nostro paese, un’esperienza che costituisce un segno di memoria e di speranza, due concetti che hanno in comune l’idea del progresso etico dell’umanità”. Di tale ricchezza l’Italia ha bisogno di riappropriarsi, come ha aggiunto Veronese, sottolineando la necessità di integrare maggiormente la cultura ebaica ai programmi scolastici e di valorizzare i corsi di studi ebraici nelle università.
E a portare il pubblico subito al cuore degli intricati processi della traduzione è statp appunto il Talmud. Hanno infatti raccontato i meccanismi del Progetto di traduzione italiana del Talmud Babilonese il suo presidente rav Riccardo Di Segni, la dua direttrice Clelia Piperno e il coordinatore della traduzione rav Gianfranco Di Segni. Un’esperienza che ha portato nuovi studiosi ad avvicinarsi al Talmud “in maniera differente da come lo si faceva tradizionalmente, portando alla luce problemi che non ci eravamo mai posti”, come ha spiegato il rav Riccardo Di Segni descrivendo alcune delle dinamiche incontrate nella redazione del primo trattato già pubblicato, quello di Rosh Hashanà, e di quelli prossimamente in uscita. E proprio questo cambiamento, che porta nuovi studiosi ad affacciarsi in maniera inedita a un testo complesso e millenario, è per Piperno uno dei maggiori successi del Progetto, che dona così alla comunità ebraica italiana la nascita di nuovi maestri e un rafforzamento delle sue radici.
Ma come si pone la legge ebraica nei confronti della traduzione dei suoi testi sacri in un’altra lingua? A introdurre l’argomento è stato il rav Gianfranco Di Segni, ripercorrendo tra le altre cose la vicenda della traduzione dei Settanta dell’Antico Testamento, seguito poi dalle riflessioni della tavola rotonda successiva, intitolata “Traduzione possibile/impossibile: dal Talmud alla filosofia contemporanea”, a cui hanno partecipato il rav Roberto Della Rocca, i filosofi Stefano Facioni (Università della Calabria), Orietta Ombrosi (Università di Roma La Sapienza) e Stefano Perfetti (Università di Pisa, CISE “Michele Luzzati“), moderati da Raffaella Di Castro.
Il rav Della Rocca ha descritto “La traducibilità dell’ebraismo nelle letture di Emmanuel Levinas”, affrontando in particolare il problema della liceità di tradurre i libri della Bibbia in una lingua straniera, senza comprometterne dignità, autenticità e spiritualità. “Il fatto che il popolo ebraico discenda da Shem, che significa ‘nome’, mostra quanto la vera saggezza consista nel chiamare le cose con il loro nome, e per questo la Torah è molto attenta al linguaggio”, ha spiegato il rav, riprendendo il versetto biblico da cui prende il titolo il convegno (Genesi, 9, 20-23). “Ma il fatto che le tende di Shem debbano aprirsi anche a Yafet, che rappresenta invece la lingua greca, simbolo di attenzione all’estetica, significa che anche la bellezza è necessaria per la trasmissione del messaggio dei testi sacri”.
Nel suo intervento intitolato “Camminando a ritroso. Traduzione necessaria, traduzione impossibile”, Facioni ha inoltre aggunto che la traduzione “consiste nel tornare e nel rivolgersi in quanto scritto, un movimento a ritroso che è condizione dell’esistenza della lettura e della scrittura”. In questo senso essa può essere vista come un’opera essenzialmente filosofica, ed è questa la lettura data da alcuni filosofi ebrei contemporanei, descritta da Ombrosi nel suo intervento intitolato “Un pensiero della traduzione da inventare. Con Benjamin, Levinas e derrida”. Essi, ha spiegato, hanno individuato nella traduzione un processo legato alla filosofia più che alla lingua, ognuno a partire dal proprio specifico nesso con la tradizione ebraica – Benjamin con la tradizione cabalistica, Levinas con quella talmudica, Derrida con la lettura biblica. Per il pensiero ebraico contemporaneo, la traduzione è dunque un “atto ermeneutico, che arricchisce l’originale scoprendo sensi che altrimenti rimarrebbero latenti”, ha quindi aggiunto Perfetti, proseguendo il ragionamento nel suo intervento intitolato “Evoluzione, universalizzazione e nuova inabitazione: filosofie dell’ebraismo in traduzione”. E in questo senso, ha concluso, “il monolinguismo non è una ricchezza”.

f.m. twitter @fmatalonmoked

(28 settembre 2016)