Continuiamo a sognare
Il fenomeno Peres mi incuriosì sin da quando cominciai ad interessarmi di politica israeliana. All’epoca egli era un Presidente amato e rispettato, una figura mitologica, una leggenda in carne ed ossa, osannato dalla stampa interna e venerato da quella estera. Nonostante l’aura che lo avvolgeva e lo elevava sempre più, altre fonti mi conducevano all’immagine di un politico ben diverso da quello indiscusso che presiedeva la Knesset. Un politico contraddetto e contraddittorio, a cui ripetute volte era stato soffiato il titolo sotto il naso, che in gioventù si era spesso accanito contro quelle folle che inveivano irrefrenabili contro di lui.
Meno bello di Rabin, meno carismatico di Begin, meno forte di Sharon, meno brillante della Meir: Shimon Peres mi trasmetteva più vulnerabilità rispetto agli altri leader politici israeliani, eppure il suo nome ha segnato la storia dell’umanità in modo irreversibile. Come nessuno prima, durante e dopo di lui. Doveva dunque esserci un segreto, la chiave del suo successo doveva nascondersi in un posto a me invisibile. E la risposta a tante domande è arrivata, brutale, la mattina della sua scomparsa.
Shimon Peres a novantatre anni suonati non si era ancora arreso, non aveva smesso di sognare e di combattere per ciò in cui credeva sin da ragazzino. Shimon Peres non ha mai considerato la pensione un progetto abbastanza valido per il suo ancora sfavillante futuro, terminato il mandato alla Knesset ha saputo reinventarsi con brillante ironia e conquistare un ruolo ancora più centrale all’interno della società israeliana. O meglio, all’interno del cuore degli israeliani.
Negli ultimi anni della sua vita, Peres riuscì a conciliare con abilità strabiliante tutte le fazioni che compongono il complesso tessuto sociale israeliano. Oggi, infatti, il lutto cade su tutto il paese. Tutti piangono, tutti lo rimpiangono, laici e religiosi, uomini e donne, giovani e vecchi, politici di destra e di sinistra. Tutti si sentono orfani, persi senza quel pastore che in gioventù guidava il gregge nel Kibbutz, e che in anzianità guidò milioni di ebrei in tutto il mondo.
È dunque questo il segreto di un uomo che poteva essere ricordato più per i suoi insuccessi che per i suoi successi. Un uomo che amava il suo paese e ogni singolo cittadino che lo popolava, che amava il suo lavoro a tal punto da non lasciarlo fino all’ultimo respiro esalato. Un uomo che ha preferito rimanere un sognatore piuttosto che affermarsi come visionario.
Rimase traccia di quell’uomo vulnerabile, Peres si trascinò appresso quel titolo quasi con orgoglio, senza rinnegare le sconfitte del passato, convinto delle sue idee più che di qualsiasi altra cosa. E questo gli fa onore.
La stampa gli concesse una tregua dalla presidenza in poi, dopo averlo deriso ed umiliato per decine di anni di attività politiche, decise di ergerlo su un piedistallo e lui finse di dimenticare tutte le ostilità, troppo concentrato nella nuova anelata carica. Anche questo gli fa onore.
Ci fu una catena di leader politici e spirituali che rese possibile il sogno sionista. Il primo anello della catena fu David Ben Gurion, l’ultimo fu Shimon Peres. Con lui si conclude un’era, adesso tocca a noi continuare a sognare.
David Zebuloni
(29 settembre 2016)