Il signor Szymon Perski
Quanto l’impegno e l’azione di Shimon Peres abbiano pesato sui destini d’Israele si incaricherà di dirlo il tempo con la dovuta esattezza. Al netto del cordoglio, dell’immedesimazione ma anche dei distinguo che già da adesso circolano emotivamente, sul web così come tra i diversi mezzi di informazione. Lo si accosta, spesso con tono elogiativo, in qualche altro caso, ben più raro, un po’ polemicamente, alla fondamentale questione della “pace” con i palestinesi. Quindi alle speranze e ai fallimenti legati ad una stagione che se è archiviata come fatto politico non è mai del tutto decaduta come prospettiva. Senz’altro di Peres era e rimane ineludibile il suo concorso all’architettura del negoziato, quello che faticosamente si dipanò tra la seconda metà degli anni Ottanta e la conclusione degli anni Novanta, che nel qual caso non implicava solo la volontà di cercare un accordo ma anche e soprattutto la possibilità di trovare qualcuno con cui accordarsi. A costituire il vero fuoco della contrattazione, più che gli stessi oggetti del contendere concretamente messi sul tavolo delle trattative, fu l’avere posto apertamente il problema di andare comunque verso una ricomposizione negoziata, cercando quindi un interlocutore altrimenti inesistente. Anche a rischio di doverselo per più aspetti creare. Per tante ragioni tutto ciò rappresentava un azzardo, una forzatura attraverso la quale l’allora gruppo dirigente israeliano lanciava sul tavolo del confronto le sue carte, cercando di spiazzare non solo una controparte divisa, i palestinesi (ai quali veniva chiesto di riconoscersi come comunità nazionale), ma anche gli storici avversari regionali, gli interlocutori internazionali non meno che l’intera collettività mondiale. Si trattava di riconfigurare il quadro del conflitto non mutandone alcuni aspetti ma le medesime logiche di fondo. Le cose si risolsero per come sappiamo, suggellate, dopo diversi e sfibranti passaggi, dalla drammatica pochade del summit di Camp David del 2000 sul cosiddetto “status finale”. L’esito infausto, tuttavia, non può indurre a ingenerose oltreché semplicistiche riletture delle premesse. Quel tentativo di soluzione negoziata, complice anche la trasformazione che gli assetti geopolitici stavano conoscendo, con la fine del sistema bipolare, non solo nella regione mediorientale ma un po’ in tutto il mondo, fu un esperimento di ingegneria politica tanto complesso quanto coraggioso. Tutto il resto, ad onore del vero, pare a tutt’oggi una cortina fumogena, ripetutamente stesa per reiterare l’ossessivo rimando alla mancanza di legittimità (leggasi: di diritto all’esistenza) delle controparti. Dopo di che, ritornando a Shimon Peres, della sua figura pubblica più e meglio si ricordano e si commemorano gli aspetti politici. Non di meno, tuttavia, il suo ruolo nello Stato ebraico si è rivelato duplice. Da una parte esponente dell’establishment israeliano, più volte titolare di dicasteri strategici, all’interno di governi di coalizione la cui natura e composizione è mutata nel corso del tempo. Peres non è mai stato solamente un competitore dei suoi avversari politici, a partire dal Likud, ma ha sempre vissuto un rapporto di identificazione come anche di distinzione con quella parte del movimento laburista nel quale si riconosceva culturalmente, oltreché politicamente, non senza però marcare la specificità della sua individuale fisionomia. Il legame di dialettica contrapposizione con Yitzhak Rabin si inscrive dentro queste dinamiche, non solo di taglio personalistico, in un Paese dove comunque le leadership, succedutesi dal 1948 ad oggi, hanno sempre lasciato un segno peculiare, giocato molto sul carisma individuale. Quasi a volere contemperare l’origine per più aspetti collettiva, ancorché non collettivista, delle istituzioni pubbliche, dall’Yishuv in poi. Dall’altra parte, Shimon Peres è stato soprattutto uno dei più alti esponenti del funzionariato governativo, di cui ha modellato alcuni funzioni strategiche, ricomprendo incarichi fondamentali soprattutto al ministero della Difesa, al quale ha dato sostanza e spirito. Peres, che di questioni militari molto sapeva ma che propriamente non era un militare, non almeno in senso stretto, tanto più se con ciò si intende una carriera operativa che, in Israele, ancora oggi confina molto spesso con quella politica, ha infatti concorso alla definizione non solo delle strategie di sicurezza dello Stato ma anche del più generale processo decisionale, in campo amministrativo, attraverso il quale il Paese è divenuto ciò che sappiamo essere. Forse il suo contributo più rilevante è stato quest’ultimo, in una società dove i politici, e le opinioni politiche, non hanno mai fatto difetto ma i diplomatici e la diplomazia dovevano invece ancora essere generati pressoché dal nulla, quanto meno nei primi anni dalla nascita dello Stato. Il suo lascito più prezioso, quindi, almeno ad una prima riflessione, è l’idea che l’azione politica si innervi in una complessa intelaiatura di scambi, di relazioni, di rapporti dove le fortune possono essere mutevoli, così come anche gli obiettivi intermedi e le alleanze, ma il fine della preservazione delle istituzioni sovrane è insindacabile. La sua traiettoria esistenziale raccoglie quindi questi motivi di fondo, così come diversi altri. Laddove più che essere l’ultimo degli esponenti della generazione dei “padri fondatori” egli è stato uno dei primi appartenenti alla comunità dei successori. Se i primi hanno dato corpo e pratica ad un progetto, quello della costituzione di una comunità nazionale che si è poi fatta anche Stato, i secondi hanno garantito la continuità di questo, modellandone le fattezze, indirizzandone l’evoluzione, attraversando le temperie e i marosi di una difficile navigazione, fino ad arrivare ai giorni nostri. Verrebbe voglia di dire che per un giovanotto già studente di agronomia, quindi destinato al lavoro in ambito rurale, il vero campo della sua esistenza è stato il coltivare le dura speranza cercando di preservarne la contaminazione dalle fatue illusioni.
Claudio Vercelli
(2 ottobre 2016)