L’ottobre del nostro sconcerto

vercelliSoffermarsi sulla triste ricorrenza di oggi, 16 ottobre, è fatto tanto obbligato, e quindi dovuto, quanto non necessitante di ulteriori delucidazioni storiche. Forse anche le commemorazioni, che servono come esercizio di memoria e di deferente rispetto, poco altro possono aggiungere al persistente senso dell’assenza. Di coloro che furono trascinati via. Una assenza, a ben pensarci, che forse deve rimanere tale. Non esiste risarcimento per ciò che è avvenuto. Sappiamo quel tanto che basta per sentirci in difetto: di quanti furono rapiti e poi assassinati, ma anche di ciò che fu tolto una volta per sempre, a partire dalla residua cittadinanza, laddove quest’ultima non era un formalismo giuridico ma il suggello dell’evidenza, ossia il fatto di costituire parte integrante di una comunità nazionale, quella italiana, da tempo quasi immemore. La “razzia del ghetto”, la caccia agli ebrei romani del 16 ottobre 1943, è un evento tanto traumatico quanto insuperabile. Poiché segna una ferita nel cuore della capitale d’Italia, inferta con calcolata ferocia a chi ne fu vittima, ma subita come un’onta da tutta quella parte della collettività che non si compromise con l’occupante e i suoi scherani. La Shoah italiana si origina da lì. Non in senso strettamente fattuale e quindi storico – già alcune atrocità si erano nel frattempo consumate ed altre ne sarebbero seguite – ma senz’altro simbolico e, in immediato riflesso, morale. Non di meno, ancora una volta il rastrellamento degli ebrei italiani in quella che è anche la città del Papa, dei tanti quartieri popolari, del centro del nostro Paese, dei poteri (allora per buona parte fuggiti e sostituiti dalla potenza dell’occupante), fu il segno che tutto era divenuto possibile anche da noi. Una strada senza ritorno, in altre parole. Anche per questo le parole non bastano mai. Come in altri paesi d’Europa la Shoah si ingenera non solo per la truce determinazione dei carnefici, per il concatenarsi progressivo e cumulativo di una brutale volontà che sfocia nello sterminio sistematico, intenzionale e tecnologico al medesimo tempo, ma anche e soprattutto per i pesantissimi silenzi che inesorabilmente ad essa si accompagnano. Ancora una volta, leggendo in controluce le vicende romane del 16 ottobre 1943, si coglie come qualsiasi violenza, tanto più se collettiva (ossia esercitata da un gruppo organizzato e motivato, come tale preponderante, su un altro gruppo invece indifeso e quindi soccombente) sia possibile solo se al freddo e geometrico calcolo degli aggressori si accompagni la gelida indifferenza di un grande numero di “spettatori”. Il tentativo di distruggere la comunità ebraica di Roma non rispondeva solo alla “necessità” di rendere l’Italia nazifascista libera dalla presenza di ebrei. Ne era senz’altro parte, funzionando in tal senso quasi come una specie di automatismo, ma sommava a ciò anche una sua ulteriore logica, del tutto autonoma. Esso, infatti, è il punto di collusione e di collisione tra una pluralità di calcoli e di interessi: verificare fino a che punto ci si potesse spingere nel ricorso alla violenza di Stato per parte tedesca, adoperandosi in un città che era la capitale del Paese che aveva originato il fascismo; misurare la reazione delle autorità rimaste in loco, a partire dalla Curia romana per arrivare alle amministrazioni civili; rendere completamente vassalle (sia sul piano operativo che sul versante politico) le “entità” neofasciste repubblicane, in via di ricostituzione dopo lo sfacelo del 25 luglio; scrutare e registrare eventuali segnali di opposizione politica da parte degli Alleati e del cosiddetto «Regno del Sud»; definire le forme di un dominio diretto su una capitale europea dove la presenza dell’antifascismo andava riorganizzandosi da tempo e così via. Più in generale, la cattura, il concentramento e la deportazione degli ebrei romani non rispondeva, quindi, solo ad una logica già ripetutamente affermatasi con i campi di sterminio e i massacri a cielo aperto nell’Europa dell’Est, ma saggiava, come in una sorta di impresa laboratoriale, cosa di ciò e di altro ancora si sarebbe potuto fare in un Paese che fino a pochi mesi prima era stato alleato dell’Asse e che continuava ad ospitare un ancora robusto nucleo di italiani legati al fascismo. Una nazione occidentale dove, come ben sapevano i persecutori, le “peggiori cose” non si dovevano fare apertamente in pubblico ma potevano essere portate comunque a compimento con il silenzio di buona parte della pubblica opinione. E qui vale la pena di dirsi che mille Giusti, malgrado tutto, non salvano moralmente una collettività nazionale inetta e imbelle, ancorché a modo suo anche inerme poiché inebetita da vent’anni di regime mussoliniano, da una guerra non voluta ma accettata, da una retorica ossessiva, basata sulla legittimazione del liberticidio e della sopraffazione sistematica come da altro ancora. Nessun dito accusatore compiaciutamente levato contro questo piuttosto che quello: troppo facile, a distanza di così tanti anni. Semmai quei fatti, riletti criticamente, senza acrimonie di circostanza ma anche evitandosi atteggiamenti di facile autoassoluzione, non ci parlano solo del passato ma ci indicano un futuro sul quale o si saprà vigilare, costruendo percorsi di integrazione, oppure saranno trascorsi invano, senza lasciare altro segno che non sia quello che le vittime e i loro congiunti portano con sé in maniera indelebile. Lo sconcerto rimane un comune sentire fertile, ingrediente di una memoria attiva, se non si riduce al ripiegamento nel silenzio degli innocenti. Nella tragedia del 16 ottobre, nella sua insuperabile specificità, ancora una volta si specchiano dinamiche profonde. Di allora e di oggi. Quando a dominare è l’indifferenza degli imbelli.

Claudio Vercelli

(16 ottobre 2016)