Periscopio – “L’uomo bianco”
Durante la lunga e intensa campagna elettorale statunitense, che in tanta misura ha monopolizzato l’attenzione dell’informazione mondiale, mi sono sempre astenuto dall’esprimere, su queste colonne, una mia opinione su tale evento, e ciò in ragione di un certo disagio che questa competizione mi ha trasmesso. Ho sempre pensato, infatti, che la forza di una grande nazione – quale certamente è, ai miei occhi, l’America – non dipenda da chi, di volta in volta, ne assuma le redini del comando, ma piuttosto dal vigore delle sue fondamenta: del suo popolo, del suo passato, delle sue speranze di futuro, delle sue istituzioni, della sua libertà, cultura, creatività, arte, letteratura, scienza. Un grande Paese è quello in cui le competizioni elettorali rappresentano un lavacro di democrazia e di partecipazione per tutti, nessuno escluso, per chi vince come per chi perde, un passaggio dal quale nessuno ha niente da temere, perché chi vince, chiunque sia, governerà per tutti, nell’interesse di tutti, e, primieramente, nell’interesse delle generazioni future.
È sulla base di questa radicata convinzione, per esempio, che mi sono sempre astenuto dal tifare per questo o quel partito dello scenario politico israeliano, perché la mia solidarietà va, sempre e comunque, all’intero popolo e allo Stato d’Israele, chiunque lo governi. E qualcosa di simile ho sempre pensato per gli Stati Uniti. Mai come in questa occasione, invece, la contrapposizione, in quel grande Paese, mi è sembrata marcare un fossato secondo, una divisione non solo politica, ma umana e culturale tra due fazioni contrapposte, separate da una distanza apparentemente irriducibile, che sembra assai difficile cercare, in qualche modo, di colmare. Sono parse schierarsi, l’una contro l’altra, non solo due diverse opzioni di governo, ma due opposte visoni del mondo. Abbiamo visto in gara non tanto due aspiranti Presidenti, ma piuttosto due Americhe e ciò, per chiunque ami l’America, è una cosa triste e preoccupante.
Per quel che riguarda, poi, l’appoggio degli USA a Israele e la tutela dei diritti civili, che sono le due questioni che più dovrebbero interessare i lettori di queste pagine, un fatto che mi ha alquanto rattristato è l’apparente scelta, che, per molti, è sembrata profilarsi, tra dare la priorità, nell’appoggio a questo o quel candidato, alla prima o alla seconda delle due cose, laddove tra di esse, secondo me, non dovrebbe sussistere una sostanziale differenza.
Non darò mai la mia piena stima e fiducia a chi, sensibile alla tutela dei deboli e delle minoranze, si dimostrasse invece freddo riguardo alla sicurezza di Israele, così come a chi, pur giurando amore eterno per Israele, dovesse invece mancare di rispetto a donne, neri, ispanici e immigrati. Certo, se dovessi votare tra uno dei due, farei anche la mia scelta, ma certamente la farei senza nessun entusiasmo, solo per evitare il male peggiore.
Tra le varie chiavi interpretative dell’inatteso successo del tycoon, una che si è sentita spesso ripetere è quella della rivincita della cd. “America bianca”. E pare che sia un dato abbastanza oggettivo: tra i bianchi d’America, soprattutto maschi, la netta maggioranza dei suffragi è andata a chi ha poi vinto, e si sarebbe trattato di una sorta di rivalsa verso le numerose attenzioni che, negli ultimi anni, sarebbero invece state portate nei confronti del popolo multicolore degli “altri”. Io credo che l’elettorato di Trump vada rispettato, e non credo che sia tutto costituito da beceri maschi razzisti, antifemministi e portatori di armi. Ma se il principale dato identitario dell’America che ha vinto è quello di essere ‘bianca’, si tratta di un dato rattristante. Mi è capitato, in vita mia, di legare la mia fluttuante identità a tante cose diverse, e mi sono sentito, di volta in volta, leccese, napoletano, europeo, conservatore, progressista, credente, non credente e altro, ma non mi è mai capitato, svegliandomi la mattina, di ricordarmi di essere un “uomo bianco”. Credo che se, un domani, qualcuno o qualcosa dovesse portarmi a considerarmi tale, sarebbe un brutto giorno, per me e per il mio Paese.
Faccio comunque i complimenti alla Signora Clinton per il grande impegno profuso, e rivolgo a Trump i miei auguri più sinceri, permettendomi di dargli un piccolo consiglio. Se vuole passare alla storia come un grande Presidente, non si impegni soltanto a migliorare le condizioni economiche della middle class “bianca” che l’ha votata, cosa di cui, dopo una manciata di anni, nessuno si ricorderà più, ma mantenga piuttosto due importanti promesse fatte in campagna elettorale: quella di stracciare l’infausto accordo col sinistro regime iraniano, che rende sempre più reale una terribile minaccia incombente sul mondo, e quella di spostare l’Ambasciata degli Stati Uniti in Israele a Gerusalemme, la vera e unica capitale dello Stato ebraico. Questo sì che La farà passare alla storia come un grande e coraggioso statista. Lo faccia, Signor Presidente, e, personalmente, se manterrà almeno uno dei due impegni, Le perdonerò tutte le non poche bestialità che ha detto in passato.
Francesco Lucrezi, storico
(16 novembre 2016)