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La Legge e il divieto d’immagine
Grande interesse ha suscitato la presentazione alla Camera dei deputati del volume Il popolo del sogno, curato dall’artista Vittorio Pavoncello per Lantana Edizioni. L’opera raccoglie cinquanta interventi che personalità del mondo religioso e della cultura hanno scritto come compendio alle altrettante incisioni create da Pavoncello ed esposte al Complesso del Vittoriano nel 2005. Assieme al curatore sono intervenuti Giancarlo Carpi, Emanuela Garrone, Saul Meghnagi, Anna Nardini, monsignor Santino Spartà e Gemma Vecchio. Pubblichiamo la riflessione della storica Anna Foa.
“Non ti farai scultura né immagine”, prescrive il Decalogo (Es 20,4). Per Maimonide, il comandamento proibisce di farsi immagini umane oltre che di Dio, ché l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Un divieto che mira a colpire nell’immagine la sua adorazione, l’idolatria, e che è stato al cuore della storia e dell’identità dei tre grandi monoteismi. Nel mondo islamico, un divieto mantenuto e rigidamente osservato. Nel mondo ebraico, un divieto mai assoluto, più volte contraddetto o violato, dalle statue d’oro dei cherubini poste da Dio stesso a tutela dell’Arca Santa, fino alle immagini bibliche della sinagoga di Dura Europos, in Siria e alle immagini che decorano le Haggadot di Pasqua, le megillot di Ester e le ketubbot, i contratti matrimoniali. Nel mondo cristiano, invece, un divieto subito accantonato insieme con l’antica Legge. L’unico tentativo che fu fatto di imporre il divieto delle immagini, quello dell’imperatore bizantino Leone II nel 730, fece infatti scorrere fiumi di sangue e sollevò insieme la Chiesa e i fedeli d’Occidente. E le immagini di Cristo, della Vergine, dei Santi, di Dio stesso riempiono la vita religiosa cristiana, dagli affreschi delle catacombe ai Vangeli miniati del IV secolo via via nella storia, facendosi parte integrante della cultura d’Occidente. Un’iconografia si è consolidata attraverso le immagini sugli altari, i dipinti, i portali delle Chiese, le Bibbie miniate. Gli uomini hanno imparato a riconoscere immediatamente, come figure famigliari, le immagini della divinità e dei Santi, i lunghi capelli dorati di Maria Maddalena e la spada di Giuditta. E i critici hanno individuato, nella storia, sottili innovazioni iconografiche, in cui l’individualità e la libertà dell’artista rompevano le rigidità dei moduli iconologici: si pensi alla splendida Vergine di Lorenzo Lotto, che si ritrae spaventata di fronte all’angelo dell’Annunciazione.
Niente di tutto questo nel mondo ebraico. Nonostante le sue contraddizioni, è pur vero che il divieto ha impedito che le immagini si affiancassero alla Parola, ha lasciato al centro la Parola (idolatria ebraica della parola contrapposta a quella cristiana dell’immagine, è stato detto). I libri della Torah sono per lo più rimasti nella storia lettere e canto, senza tramutarsi in immagine. Solo da poco, un secolo o poco di più, da quando l’entrata nella modernità ha rimescolato la loro storia e la loro identità, gli ebrei si sono cimentati a fondo con il compito arduo di dare immagini e volti a Dio e alle storie narrate nella Torah. Un ritardo che taglia via il passato ma che apre spazi infiniti al futuro, e una immensa libertà di immaginare, inventare, creare. Il volo dei personaggi di Chagall ne è forse il simbolo più emozionante.
Di questa libertà scorgiamo ora le impronte in queste tavole di Vittorio Pavoncello, straordinarie per la novità dei moduli, per la originalità delle immagini, per la forza di soluzioni sempre nuove, frutto di incessanti creazioni. Ma, oltre che della libertà, queste incisioni portano anche il segno della complessa
storia della tradizione. Del divieto, oltre che del passar oltre il divieto. Guardiamo queste immagini. I segni che disegnano gli esseri umani sono poco più che segni grafici. Sei segni, che alludono ad una persona senza rappresentarla. Non c’è volto, non c’è immagine, anche se dell’immagine c’è la forza, il movimento, l’emozione. Questi uomini e donne, questi segni, parlano con Dio, lottano con gli angeli, costruiscono la torre di Babele. E l’assenza di volto conferisce al tratto una forza suggestiva grandissima, una infinita libertà di immaginare ed essere immaginati, di rappresentarsi Dio e di essere rappresentati sulla carta. Una nuova iconografia, direi, che si colloca al confine tra parola e immagine e questo confine rappresenta. I grigi degli sfondi, i tratti decisi di nero, i bianchi sembrano alludere alla pagina scritta, ai bianchi e ai neri del midrash. E l’artista si colloca a metà strada fra la trasgressione e l’obbedienza, rappresenta senza rappresentare con più forza che se tracciasse dei volti reali, suggerisce spazi infiniti di libere im- magini, viola il comandamento senza violarlo, con la sola forza della suggestione.
Che la Legge avesse presente queste possibilità, vietando l’immagine? Che il divieto mirasse ad approfondire i confini tra la parola e l’immagine, tra il testo e la raffigurazione? O che il divieto stesso porti in sé la libertà di violare e quella di osservare? Qualunque riflessione ci stimolino queste immagini piene di forza e di bellezza, esse ci trasmettono, insieme ai versetti che le accompagnano, tutta la forza della Parola.
Ci attraggono senza possibilità di scampo dentro il Testo, ci obbligano a guardarlo fino in fondo, a renderlo vivo, come i commenti infiniti della tradizione, come gli spazi delle lettere, i pieni e i vuoti del Testo. E se il bianco e il nero alludono al testo, il grigio degli sfondi ci porta forse in una dimensione altrettanto preziosa, quella del dubbio, e fa riemergere, oltre al divino, l’umano che è in noi, della parola, come dell’immagine, rifiutando il farsi idolo.
Anna Foa, storica
(20 novembre 2016)