Levanà

Sara Valentina Di PalmaUn altro Shabbat inizia, in questo periodo dell’anno in cui fa buio presto con un po’ di affanno. Poi c’è tempo per rilassarsi, tempo per tutto. Leggiamo, studiamo. Tra un Siddur, la Torah, le fotocopie dei canti che stiamo imparando, anche un libro della Kar-Ben Publishing, casa editrice statunitense da noi molto amata per la ricchezza di testi di argomento ebraico per bambini di ogni età (alcuni dei quali pubblicati in Italia da Giuntina nella collana per l’infanzia Parpar). Leggiamo, dunque, da My First Hebrew Word Book la pagina sul giardino zoologico, per scoprire quanto è buffo che la foca si chiami, alla lettera, “cane del mare”, le parti del corpo, i numeri da uno a dieci, i colori. Lavan, bianco, come levanà, luna, dice il più piccolo, perché la luna è bianca.
A proposito di luna, rammento, da motzè Shabbat si può fare la Birkat haLevanà, la santificazione del Signore in presenza del novilunio, mitzvah da compiere appunto preferibilmente all’uscita del Sabato quando si è ben vestiti per la festa, ricorda il קיצור שולחן ערוך, Kitzur dello Shulchan Aruch di Rav Shlomo Gantzfried – un riassunto dello Shulchan Aruch di rav Yosef Karo in chiave askenazita, come si nota anche a proposito dei limiti di tempo per recitare la Birkat HaLevanà: “non si deve effettuare prima che siano trascorsi almeno tre giorni dal molàd – dalla nascita [della luna nuova]; vi è chi attende sette giorni” (10/15 cap. 97, p. 567 nell’edizione italiana di Moise Levy) ovvero i Sefarditi.
E, nonostante nella sua recente tesi Andrea Lobel l’abbia liquidato come forzatura (Under a Censored Sky: Astronomy and Rabbinic Authority in the Talmud Bavli and Related Literature. A Thesis in the Department of Religion Presented in Partial Fulfillment of the Requirements for the Degree of Doctor of Philosophy (Religion) at Concordia University Montreal, Quebec, Canada, 2015, p. 99), ci concediamo di ripercorrere, appena prima di cena, il racconto avventuroso proposto da Mayer Abramowitz, secondo il quale la Birkat HaLevanà nacque durante la rivolta di Bar Kochbà (132-135 dell’era corrente) come codice comunicativo tra i combattenti che non fosse comprensibile ai soldati romani nemici, e per darsi forza: “Come io mi sollevo o verso di te e non riesco a toccarti, così pure i miei nemici non possano toccarmi per danneggiarmi”.
Il Kiddush HaLevanà è indubbiamente anche, come la leggono i più, un’allegoria del popolo ebraico che come la luna sa rinnovarsi, ha periodi bui ma riesce a risollevarsi, però noi che passiamo il tempo libero tra coltelli intagliati e scudi di cartone, carezziamo questa visione dei ribelli che muovendosi nel buio si scambiavano parole d’ordine in codice.
Ecco un bel gioco per trascorrere questo Shabbat.

Sara Valentina Di Palma

(8 dicembre 2016)