SOCIETA’ Resilienza, un confronto su scala europea

convegno-ecjcSono stata a un incontro delle comunità europee a Barcellona, inviata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Un incontro estremamente interessante e stimolante. Abbiamo parlato di uno dei temi attualmente più importante per tutti noi: come rafforzare le nostre comunità in questo momento in cui la vita degli ebrei europei attraversa sfide difficili a seguito degli attacchi terroristici degli ultimi anni. “Community Resilience” è l’abilità di una comunità durante un periodo di crisi o di emergenza e nel suo proseguo, di utilizzare le sue risorse, di adattarsi ai cambiamenti circostanti, di continuare a funzionare regolarmente, a provvedere alle attività comunitarie, ad agire in modo da mantenere e migliorare il benessere fisico e psicologico degli iscritti. Per costruire tutto ciò dobbiamo agire nei momenti di quiete preparandoci per le sfide dei momenti di crisi perché il nostro scopo non è, e non deve essere, sopravvivere, ma vivere. Certo non è facile. Nelle differenti sessioni sono stati affrontati aspetti diversi dopo essersi soffermati sul significato di resilienza. Si è parlato dell’importanza delle relazioni con le autorità locali, delle relazioni tra comunità, di sicurezza e preparazione degli iscritti, di esempi di comportamenti in diverse parti del mondo, senza dimenticare cosa ci dice l’ebraismo sull’affrontare momenti di crisi. Molte delle sessioni si sono svolte in parallelo, impossibile quindi seguirle tutte ed anche riferire non è facile. Quello che segue è un estratto. Molto importanti sono stati anche gli incontri con membri delle altre comunità europee. Rav Sacks, abbiamo visto una registrazione, ha sottolineato che il mondo ebraico ha sempre avuto la capacità di far nascere qualcosa di buono da un momento di crisi. Un bellissimo esempio di creazione di una rete e di azione a 360° è stato portato da rav Kaplan, direttore del centro per Community Leadership, Jewish Community Relations Council di New York. New York è una città particolare dove vivono 200 gruppi etnici e religiosi differenti che convivono e competono tra loro in una difficile relazione di vicinato. Ormai da 20 anni il Jewish Community Relations Council si è impegnato nel costruire relazioni di lunga durata tra la leadership dei diversi gruppi, con il mondo politico e l’amministrazione comunale. Il centro, nato a seguito di un momento di crisi nell’agosto del 1991, ha lo scopo di creare una nuova leadership nelle differenti comunità di NY, ebraica, cinese, afroamericana, sudamericana ecc. per creare una buona relazione tra le diverse comunità. Ogni comunità ha dei bisogni differenti, partendo dall’ascolto dell’altro, guardando ciò che accade da diversi punti di vista e lavorando insieme le relazioni si rafforzano e ben difficilmente poi ci sarà uno scontro. Un tavolo di problem solving crea relazioni durature. Si crea una coalizione prima di un possibile conflitto. Ad esempio nel settembre 2011 quando è scoppiata la seconda intifada il sindaco di NY ha chiamato il responsabile del centro, che ha convocato i leader delle comunità mussulmane ed ebraiche, già legati da solide relazioni, che si sono trovati d’accordo a non far riproporre a Brooklyn quanto stava accadendo in Israele. Hanno mostrato la loro autorevolezza nel parlare alle proprie comunità e niente è accaduto nella loro città. Non è facile esportare questo modello, ma ci si può provare partendo dalla condivisione dei problemi e delle risorse, non necessariamente economiche. La coalizione che si forma ha poi una voce molto più alta per farsi ascoltare dalle autorità politiche e comunali. Differente la situazione in Francia. Rabbi Delphine Horvilleur (Movimento ebraico liberal francese) alla domanda se gli ebrei francesi resteranno in Francia, ha detto che non è possibile dare una risposta. I giovani lasciano la Francia per mancanza di lavoro. Mentre le persone che lasciano la Francia per paura sono di mezza età. La maggior parte delle coppie con figli non sta pianificando di lasciare il paese, ma alleva i figli con l’idea che potrebbero partire, desidera che parlino più lingue, che siano sicuri e pronti psicologicamente a lasciare il mondo in cui sono cresciuti. Non era facile parlare della propria paura dell’antisemitismo con i francesi, il cui atteggiamento è cambiato dopo l’attentato al Bataclan. La sensazione di essere soli è diminuita e le alioth aspettate sono diminuite. La crisi in Francia è generalizzata, è in crisi il concetto stesso di laicità, termine non traducibile correttamente. Si tratta più propriamente di una protezione dalla religione, prevenzione di un suo contagio. Indica il volere dello Stato che tutti siano uguali indipendentemente dalla propria peculiarità. Il dialogo con i musulmani è la strada che viene seguita (ragazzi che frequentano insieme scuole pubbliche con corsi sull’antisemitismo). Scuole di studio insieme, il rabbino che va con ebrei e musulmani nelle periferie. Secondo l’oratrice la Francia non è antisemita, anche se c’è antisemitismo: il 20% della popolazione è antisemita, il 65% si oppone all’antisemitismo, il 15% ci ride. Sempre sulla situazione francese Tali (servizio di protezione della Comunità ebraica) ha messo in evidenza la diversa natura del terrorismo: i terroristi ora sono francesi che agiscono in autonomia e la loro fama, anche se hanno ferito una sola persona, vola nei social network. Nelle comunità vengono fatti dei corsi per riconoscere oggetti pericolosi e per imparare a reagire correttamente in situazioni di emergenza. Una lezione interessante è stata tenuta dalla rabbina Daulphine Horvilleur sulla risposta ebraica riguardo alla resilienza, su come la tradizione ebraica contribuisce al processo di resilienza e di ricostruzione nei momenti di crisi, sia a livello personale che comunitario. Parlando di resilienza si è portati a chiederci chi siamo, da dove dobbiamo partire per costruire noi stessi. “Noi, gli ebrei, non possiamo acconsentire a nessuna frase che inizia con noi, gli ebrei”. Questa frase citata da un libro di Amos Oz sottolinea che ognuno di noi ha una sua visione, la nostra è un’identità in between, in disconforto. Nei nostri tempi di crisi identitaria noi siamo non solo quello che siamo (quanti hanno scritto Je suis Charlie o Je suis…..). In ebraico non c’è modo di dire io sono, si può dire di essere solo al passato o al futuro. Kadosh BaruchHu risponde a Moshe con parole che mostrano la possibilità di essere, la parola ivrì indica un movimento. L’identità ebraica è un processo. Per dire “io” si può scegliere tra ani e anochi, che ha qualcosa in più, almost I. Non solo Kadosh BaruchHu usa anochi, anche Rivchà quando si lamenta perché, finalmente gravida, ha una lotta nel suo ventre, è se stessa e non completamente se stessa, e poi Jakov quando chiede la berachà del primogenito, mentre Esav usa ani. L’opposizione tra ani ed anochi ci insegna una diversa capacità di riconoscere una gravidanza in noi, siamo gravide/i di una complessità. A questo ci dobbiamo rivolgere parlando di resilienza. Abbiamo sempre la possibilità di raccontare una nuova storia, è vero, però se abbiamo sperimentato l’esperienza della rottura (per esempio a Pesach durante il seder spezziamo la matzà – davanti alle future generazioni spezziamo un simbolo). Nei discorsi dei fondamentalismi c’è solo un essere monolitico, compatto, un’esistenza non contaminata. Per noi la completezza ora non c’è, preghiamo che venga in futuro. Siamo capaci di creare una benedizione da ogni brutta cosa che avviene; dalla capacità di sperimentare la rottura nasce la possibilità di rinnovare e ricreare. È importante riconoscere che non capiamo né proviamo ciò che prova chi abbiamo di fronte, stargli ugualmente accanto è empatia. Ci sono delle frontiere, uno spazio tra due persone perché sia possibile avere una relazione. In alcune culture le donne devono avere il corpo coperto come se questo creasse intorno a loro una frontiera. Gli uomini non riconoscono questo diritto al loro corpo per cui questo deve essere coperto. Dobbiamo accettare la complessità. Chiave dell’ebraismo è l’impurità (Purim, Pesach), le feste nascono dall’incontro di identità. Sei quello che sei perché non sei quello che eri e non sei ancora quello che sarai. Molte le ricerche sociali presentate (ho delle pubblicazioni per chi le volesse). Difficile, come è stato detto, confrontare diverse ricerche. La percezione dell’antisemitismo è differente dalla presenza di antisemitismo e di atti ad esso correlati, su questo punto tutti i relatori erano concordi. Come tutti erano concordi nell’essere preoccupati per il futuro che si prospetta a seguito dei cambiamenti politici mondiali.

Sara Cividalli, Consigliere UCEI
Pagine Ebraiche, dicembre 2016