differenze…

Cosa vuole insegnarci quel passaggio della Haggadà di Pesakh in cui si afferma che Lavàn è stato peggio del Faraone, perché quest’ultimo si limitava a eliminare i maschi ebrei, mentre il padre delle nostre matriarche Leà e Rachèl desiderava “sradicare il tutto”? Lavàn, con i suoi modi ambigui, e interpretando con grande abilità scenica la caricatura del nonno saggio e premuroso, cerca in tutti i modi di impedire a Yaakòv di tornare in Israele con la sua famiglia e di procedere allo sviluppo di un progetto ebraico nella sua terra. Si batte piuttosto per una religione universalista, radicata nella diaspora di Charàn, ancorata agli antenati comuni e a valori indistinti. Nel Talmùd (Meghillah 9 a), si sostiene che l’unica parola aramaica presente in tutta la Torà sarebbe “Yegàr Sahadutà”(Bereshìt, 31; 47), che indica il mucchio di pietre innalzato da Yaakòv e Lavàn dopo la loro riconciliazione. Questo mucchio di testimonianza, che Yaakòv si ostina a definire nella lingua ebraica, chiamandolo “Galèd”, diviene il segno esterno e visibile del patto stipulato tra due parenti estranei e incompatibili nel quale Yaakòv si rappresenta finalmente con i suoi specifici codici linguistici e culturali senza ricorrere più a travestimenti e dissimulazioni della sua identità. Ma è assai significativo che l’unica traccia di parlata volgare nella Torà è quella introdotta da Lavàn, il paradigma dell’ambiguità. L’aramaico infatti è lingua ambigua, forse proprio perché troppo imparentata con l’ebraico. In una sofferta pagina talmudica (Meghillah, 8 b) dove si discute sulla liceità di “tradurre” i concetti che delineano l’ebraismo in un’altra lingua/cultura, i Maestri sembrano privilegiare il “greco” all’aramaico.
Il greco, la cultura “altra” per eccellenza rispetto all’universo ebraico, è per certi aspetti meno pericoloso alla dignità della Tradizione, rispetto alla riduzione dell’ebraico all’aramaico.
Se l’ebraismo deve essere “tradotto” che lo si faccia direttamente in greco ma non in aramaico. Mi sembra che ci sia in questa disposizione un’insofferenza dei Maestri del Talmùd nei confronti di tutto ciò che odora di ambiguo e non autentico. L’aramaico è una lingua /cultura troppo imparentata con l’ebraico e quindi la confusione “idolatrica” è particolarmente insidiosa.
La propensione antidolatrica e antifeticistica si delinea soprattutto in questo, nella consapevolezza delle differenze. Ecco l’importanza di avere ben chiara la differenza tra Torà e cultura ebraica. Una distinzione che dovremmo riconoscere anche in altri insidiosi apparentamenti linguistici /concettuali: come, per esempio, tra lehitiahed (il giudaizzarsi) e lehitgaier (il convertirsi), tra la Pasqua ebraica e Pesakh , tra l’ Olocausto e la Shoà , tra safà, una qualsiasi lingua (dalla radice “labbra”) e lashòn, la lingua della Torà, che tra l’altro indica anche la lingua anatomica che è dentro di noi.
Yaakòv non si adagia sulla toponomastica “Yegàr Sahadutà” di Lavàn. Lavàn continui pure a definire le cose in aramaico come meglio crede. Ma io parlo l’ebraico e chiamo “Galèd” quello stesso luogo. L’attaccamento alla lingua ebraica è la chiave per usare termini e concetti ebraici. Se vogliamo pensare da ebrei dobbiamo iniziare a parlare da ebrei.
La Torà ci insegna che il rapporto con l’altro può svilupparsi solo se si traccia il confine che ci permette di capire chi siamo e dove siamo. A un Lavàn che vuole cancellare la nostra ipseità in un uniformità globalizzata e gettarci nella confusione dell’ indistinto – che è cosa ben diversa dalla “complessità” – per il quale “è tutto lo stesso” , noi continuiamo a fare la nostra Havdalà , altrimenti saranno gli altri a farla con noi, ma con ben altri metodi e criteri. Non è tutto lo stesso. C’è il sacro e il profano. La luce e il buio. Lo Shabàt e i giorni lavorativi . Israele e le genti.
Se non si ha chiaro questo criterio della distinzione si è peggio del Faraone e si “sradica il tutto” come dice la Haggadà di Pesakh.

Roberto Della Rocca, rabbino

(13 dicembre 2016)