ORIZZONTI La morte di Aleppo non riesce a svegliarci

Da Aleppo assediata arrivano grida di disperazione e richieste di aiuto. «Questo potrebbe essere il mio ultimo messaggio. Sono qui con mia figlia. Nessuno viene ad aiutarci. Come finiremo?». È uno dei tweet che miracolosamente ci raggiungono in questa oasi di pace. Accanto a queste parole una piccola fotografia di una donna giovane con accanto una bambina di pochi mesi. «Le forze del regime stanno arrivando — scrive Bilal Abdul Kareem — i soffitti del bunker ci stanno piovendo addosso». «Siamo chiusi nella assediata Alenno. Chiediamo un aiuto internazionale» grida Monter Etaky. Accanto la faccia di un uomo spaventato, con vicino la testa di un bambino. «Ancora riesco a twittare ma non so fino a quando. Vi prego di salvare almeno mia figlia. E un padre che vi supplica. Cercate di capirmi: non posso arrendermi e lasciarmi catturare. Sto parlando pubblicamente e questo è un crimine». Firmato Alhamdo. Voci che una volta non avremmo mai potuto ascoltare, ci chiamano dalla lontana Aleppo attraverso la fragile rete di Twitter. Ma fino a quando potranno continuare a pigolare chiedendo un aiuto che non verrà? La globalizzazione ci ha resi tutti più vicini, ma non più solidali o partecipi dei dolori altrui. Eppure osserviamo sui nostri pallidi schermi i disastri che la guerra sta creando nella bellissima città di Aleppo, una volta pacifica meta di turisti e oggi ridotta in cenere: le macerie fumano, pochi esseri umani intrappolati fra le rovine aspettano una mano che li tiri fuori. Ma noi abbiamo le braccia sempre più corte e impedite. Difficile non pensarci, non sognarseli la notte, non chiedersi: ma io cosa posso fare per questa povera gente che sta morendo di fame, di terrore, di un’attesa brutale di morte? Forse è proprio questo senso di impotenza che crea ansia e depressione. Il mondo è diventato quel villaggio globale di cui scriveva McLuhan, un enorme agglomerato da cui entriamo e usciamo con le telecamere, assistendo sempre più indifferenti e rassegnati alle disgrazie altrui. Quella bambina di cui il padre supplicava la salvezza sarà ancora viva dopo ore di bombardamenti? Chi le punterà il fucile addosso, un guerriero ribelle o un soldato dell’esercito di Stato? E come possiamo chiamare Stato un regime incapace di difendere i suoi cittadini inermi, che anzi li usa come scudi umani, come cavie, come materiale di scambio, per asserire un potere piuttosto che un altro? Non ci vuole cuore ma immaginazione. Cosa di cui sembrano mancare i vari Assad della situazione. È l’immaginazione, il nostro più potente motore, che ci fa capire e vedere con gli occhi del pensiero le sofferenze altrui. Ma evidentemente il senso del possesso e del potere accecano completamente l’immaginazione dei guerrieri. La resistenza oggi sta tutta nell’immaginazione, la sola capace di spingere ad una prassi di pace.

Dacia Maraini, Corriere della Sera, 14 dicembre 2016