SOCIETA’ Monoteismi e interpretazioni
“Festa della liberazione” o “festa della vittoria”? La tesi sostenuta da R. Meir Simchah da Dvinsk nel suo commento Meshekh Chokhmah alla Torah (P. Bo) è che noi Ebrei abbiamo datato le nostre ricorrenze annuali in funzione della redenzione dai nostri nemici anziché della loro distruzione. Celebriamo Pessach nell’anniversario dell’Uscita dall’Egitto e non nel giorno del definitivo annientamento degli Egiziani nel Mar Rosso. Purim si festeggia il 14 adar mentre il 13, vero anniversario della battaglia decisiva per l’autodifesa, si digiuna. Ma la cosa è soprattutto evidente con Chanukkah. Ricordiamo il miracolo dell’olio nel Bet ha-Miqdash mentre la vittoria militare dei Maccabei, che pure ebbe luogo, è quasi sottaciuta: se ne parla sì nella Tefillah (‘Al ha- Nissim), ma il Talmud non ne fa menzione. Il vecchio adagio “per i nostri peccati siamo stati esiliati dalla nostra terra” è stato messo in discussione dopo la Shoah: si ritiene inconcepibile che i campi di sterminio siano stati generati dalle colpe del popolo ebraico. Eppure proprio la concezione per cui i nostri nemici sono semplicemente gli strumenti della punizione divina per le nostre trasgressioni ha protetto noi Ebrei da un fenomeno che prima o poi ha interessato tutte le altre nazioni della terra: l’esigenza di trovare un capro espiatorio per i propri fallimenti. Ammettendo a gran voce il principio per cui il soggetto è il primo responsabile delle proprie azioni ci siamo scrollati di dosso per secoli la tentazione di odiare gli altri. A costo di diventare noi capro espiatorio e oggetto di odio per le manchevolezze altrui. È questa una delle tesi sostenute nell’ultimo libro dell’ex rabbino capo del Regno Unito rav Jonathan Sacks, una delle figure di maggiore spicco nel pensiero ebraico contemporaneo: “Not in God’s Name: Confronting Religious Violence” (2015). Il testo parte dalla definizione dell’uomo come animale sociale: questi è portato da un lato a fare gruppo per meglio sfruttare le risorse limitate, ma dall’altro tende a denigrare e poi demonizzare i gruppi rivali fino a perseguire la loro distruzione. In questo scenario nasce la religione, potente elemento di coesione in quanto fornisce meglio di ogni altra ideologia le necessarie basi morali alla solidarietà. Solidarietà che resta però legata all’interno del gruppo! In alternativa alla visione freudiana del complesso di Edipo che colloca l’origine degli umani conflitti nei rapporti fra genitori e figli, Rav Sacks rivaluta la teoria di René Girard che individua il problema nella rivalità fra fratelli. Tale rivalità si esprime anzitutto nel desiderio di imitazione reciproca, per cui ciascuno dei fratelli desidera ciò che hanno gli altri. L’autore interpreta a sua volta il libro di Bereshit, di cui completeremo la lettura in queste settimane, come una progressiva emancipazione della famiglia israelitica da questo complesso, presupposto necessario perché possa divenire un popolo. Il primo omicidio della storia è stato un fratricidio: Qayin uccide Hevel per gelosia. Anche nelle generazioni successive il rapporto fra fratelli è contrastato, ma man mano che passa il tempo il conflitto si redime. Se Itzchaq e Ishma’el si rappacificano solo al funerale del padre, Ya’aqov e Esaù si riconciliano prima. E la rivalità fra Yossef e i suoi fratelli termina nel momento in cui l’aggressore prende il posto della vittima e si rende conto di persona degli esiti della violenza. Yehudah, che a suo tempo aveva proposto la vendita di Yossef in Egitto, ora perora la causa di Binyamin trattenuto prigioniero e si immedesima nella sofferenza sua e del padre. Solo l’inversione dei ruoli, afferma rav Sacks, può purificare. Anche i rapporti fra le tre fedi monoteistiche sono stati viziati per secoli dalle stesse problematiche. Rivalità fraterne, desiderio di imitazione reciproca e necessità di affermare il credo del proprio gruppo a scapito degli altri hanno pesantemente condizionato anzitutto lo studio dei testi sacri comuni. Testi che, se adeguatamente analizzati, mettono in luce il proposito di conciliazione fra le religioni piuttosto che la reciproca contrapposizione. Rav Sacks sostiene la necessità di una rilettura della Bibbia da parte di tutti, sforzandosi di dimostrare come nei vari episodi l’elezione di uno dei fratelli non comporti per forza il rigetto dell’altro. Egli giunge così a formulare una teologia “a doppio binario”: un primo patto, quello dei Figli di Noach, fra D. e le nazioni del mondo basato sulla nozione di giustizia e un secondo patto, con i figli di Avraham, fondato sull’amore. La scelta si motiva con il fatto che un’umanità senza distinzioni degenera nell’individualismo assoluto o nell’imperialismo distruttivo di ogni libertà, come è evidenziato dall’episodio della Torre di Babele. Questo è inserito fra i due patti a testimoniare le conseguenze del totalitarismo ante litteram degli imperi antichi. Libro affascinante e potente, la sua tesi lascia tuttavia il lettore con una vena di scetticismo. È davvero convinto l’autore che gli altri monoteismi si persuadano a loro volta ad accettare la sua lettura del testo biblico e a rinunciare a ogni prevaricazione nei confronti dei loro “fratelli maggiori” sulla base del fatto che i “fratelli minori” non sono in realtà oggetto di rigetto? Basta forse questo contentino a tacitare ogni ambizione di questi alla primogenitura e ogni ricorso alla violenza, fisica o psicologica? E soprattutto: saranno pronti a riconoscere che la primogenitura di Israele cui aspirano è di natura soltanto spirituale e comporta la rinuncia a qualsiasi volontà di potenza e di sopraffazione nei confronti di chiunque altro?
(Nell’immagine: Purim, Moritz Daniel Oppenheim, 1873, The Jewish Museum, New York)
Alberto Moshe Somekh, rabbino
Pagine Ebraiche, dicembre 2016