L’audizione alla Commissione Esteri
L’esodo ebraico dai Paesi arabi
un insegnamento per l’oggi

img_20161221_090306La storia dell’esodo forzato degli ebrei dai Paesi arabi racconta molto di quelle realtà che furono costretti a lasciare: Egitto, Libia, Libano, Siria, Iraq, sono nazioni in cui oggi la minoranza ebraica è quasi sparita e non a caso sono società spesso intolleranti, in cui la diversità non è percepita come un valore, anzi. Un dato importante da tenere a mente quando si parla di equilibri tra minoranza e maggioranza, quando si parla di accoglienza e di profughi in fuga dalle violenze come hanno testimoniato oggi alla Commissione Esteri della Camera dei deputati alcuni rappresentanti del mondo ebraico italiano in occasione dell’audizione organizzata proprio sull’Esodo “silenzioso” degli ebrei dal mondo arabo (a cui Pagine Ebraiche ha dedicato il dossier di dicembre). Un’audizione aperta dal presidente della Commissione Fabrizio Cicchitto, chiesta dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e inserita nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla tutela delle minoranze per il mantenimento della pace a livello internazionale portata avanti dalla Commissione stessa. A intervenire davanti ai deputati presenti, la presidente dell’Unione Noemi Di Segni, che ha ricordato in apertura il silenzio caduto sulla storia degli oltre 850mila ebrei costretti a fuggire dal Maghreb e dal Medio Oriente verso Israele e l’Occidente; l’assessore UCEI alla Cultura David Meghnagi, già ascoltato in passato dalla Commissione Esteri sul tema e che ha dato un inquadramento storico dell’esodo in questione; testimonianze personali ma anche proposte fattive sulla base della propria esperienza di ex rifugiati, sono invece state quelle di Victor Magiar, Consigliere dell’Unione, Carolina Del Burgo, rappresentante del Comitato degli ebrei espulsi dall’Egitto, e il presidente della Comunità ebraica di Livorno Vittorio Mosseri. Presenti in qualità di uditori, la presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello e il portavoce dell’Ambasciata d’Israele in Italia Amit Zarrouk.

L’audizione, ha sottolineato all’inizio il presidente della Commissione Cicchitto, è un segno importante per recuperare la memoria di un’ingiustizia dimenticata, quella appunto di centinaia di migliaia di ebrei, il cui obbligo a diventare profughi è stato dimenticato, a differenza di quanto accaduto quasi contestualmente con i palestinesi (per cui il 29 novembre alle Nazioni Unite viene celebrata la Giornata internazionale di Solidarietà con il popolo palestinese). “Quanto si racconterà oggi è quanto avvenuto in molti Paesi e riguarda il destino di centinaia di migliaia di persone fuggite dalle loro case, dalle loro patrie – ha ricordato la presidente Di Segni parlando della lunga fuga avvenuta tra gli anni ’40 e ’70 del Novecento – Iraq 150.000, Egitto 75.000, Algeria 160.000, Libano 25.000, Libia 40.000, Marocco 265.000, Siria 30.000, Tunisia 160.000, Yemen 60.000, Iran 100.000. Non voglio tediarvi con numeri. Ma, dietro ai numeri ci sono persone, bambini, usanze, affetti quotidiani, lavoro, processi di distacco e processi di difficile integrazione. Massacri e violenze, repressioni, torture, disconoscimento e perdita di ogni riferimento”. Tragedie che in Israele vengono simbolicamente ricordate nella data del 30 novembre stabilita nel 2014 dalla Knesset. “Oggi più che mai, – ha proseguito la presidente UCEI parlando dell’attualità – con l’Europa che vede la presenza di tanti immigrati provenienti dai medesimi Paesi, che vive una trasformazione accelerata in una spaventosa dialettica tra l’abbraccio dell’accoglienza e il braccio della morte, dobbiamo non solo essere auditi. Dobbiamo avere il coraggio di trasformare il vissuto e l’esperienza del passato in una memoria condivisa e in modelli di integrazione efficaci. La lettura data dalle organizzazioni internazionali del conflitto mediorientale e quello israelo-palestinese va integrata con questi
dati per essere credibile. Affinché le medesime istituzioni siano credibili”.

Di futuro ha parlato anche Meghnagi, direttore del Master internazionale di II livello in didattica della Shoah, ricordando le parole Walter Benjamin: “Il passato deve essere redento perché il futuro sia possibile”, ha spiegato, citando il celebre filosofo. E il passato che deve essere redento è quello legato alla storia della fuga del mondo ebraico da quasi tutti i paesi arabi, dettata, ha spiegato Meghnagi, dalle condizioni di subordinazione in cui erano costretti a vivere. “Nella relazione tra maggioranza islamica e minoranze interne a questi paesi – ha sottolineato l’assessore, nato a Tripoli e con un’esperienza diretta con questo dramma – esiste l’ideologia Dhimmi, che stabilisce che nella casa dell’Islam possano essere tollerate altre minoranze a patto che accettino la subordinazione ideologica. Sono tollerate ma non libere e la messa in discussione di questo sistema viene percepito come la messa in discussione dello stato naturale”. Meghnagi d’altra parte ha ricordato come la presenza degli ebrei, in Algeria, Tunisia, Libia, Iraq e negli altri paesi, fosse precedente a quella musulmana e come per secoli, anche sotto l’Islam, le comunità ebraiche fossero riuscite a convivere pacificamente. “Non erano un elemento di conflitto. Lo sono state solo nella percezione di chi poi i ha perseguitati”. E questo è un tema importante per modificare la narrativa vigente, ha proseguito il docente, e per far capire a quei paesi cosa hanno perso senza l’apporto della minoranza ebraica e delle altre minoranze che gradualmente hanno represso.

Secondo Victor Magiar, anche lui originario di Tripoli, bisogna evitare le semplificazioni quando si parla del rapporto tra arabi ed ebrei. Bisogna affidarsi alla storia e analizzarla, il concetto espresso da Magiar che ha messo in luce alcuni dei problemi che hanno portato all’esodo ebraico dai paesi arabi: il panarabismo prima, e il panislamismo poi. “Quest’ultima è un’invenzione dei Fratelli musulmani che ancora oggi ha presa – ha spiegato Magiar – e che vorrebbe affermare che popoli molto diversi tra loro sono uniti nella loro identità musulmana”. E in questo quadro unico, le minoranze non hanno spazio: non è un caso ha proseguito il Consigliere UCEI, se sono stati proprio movimenti islamici a ispirare i pogrom più sanguinosi in Libia. “Tripoli oggi è una città senza minoranze, in cui la multiculturalità che per secoli l’aveva caratterizzata è stata cancellata, dando spazio alle ideologie totalitarie ed è da queste che dobbiamo difenderci”.

È tornata invece indietro nel tempo Carolina Del Burgo, richiamando quel giorno del 1956 in cui senza nessun preavviso la sua vita da giovane cittadina egiziana cambiò: “In piena notte sentimmo bussare qualcuno alla porta. Era la polizia con un mandato di perquisizione. Misero a soqquadro la casa. Guardarono dappertutto. Poi portarono via mio padre e la sorella di mia madre, Sara, sua socia in affari. Non tornarono più a casa. Il console italiano chiamò mia madre e le disse che eravamo diventati cittadini sgraditi. Avevamo tre settimane di tempo per liquidare e vendere tutto”. Del Burgo, allora undicenne, e la sua famiglia dovettero abbandonare praticamente tutto quello che avevano costruito in Egitto e imbarcarsi per l’Italia. “Ad Alessandria d’Egitto fummo umiliati e derisi dalle guardie della dogana che buttarono all’aria la nostra roba per cercare se avevamo nascosto cose di valore in valigia”. Dal porto di Alessandria approdarono poi in Italia dove rimasero per diverso tempo in un campo profughi per poi cominciare a costruirsi gradualmente una vita. Con tutte le difficoltà del caso, essendo stranieri e senza nessun patrimonio alle spalle, lasciato in mano a un governo che aveva scelto l’oppressione degli ebrei. “Ma noi siamo anche una testimonianza di come dalle macerie, dalle umiliazioni, senza aiuto se non l’accoglienza del governo italiano, sia possibile ricostruirsi una vita, una dignità, avere successo”.

Una dinamica ricordata anche da Vittorio Mosseri, che, ricordando la sua esperienza personale, ha sottolineato che al suo arrivo in Italia fu accolto in modo diverso da come oggi vengono visti i profughi. “Il contesto sociale in cui siamo arrivati noi era maggiormente predisposto all’accoglienza. Lo straniero non era visto come un invasore, come un nemico. Ora invece il clima è diverso. Chi allora ci aiutò tantissimo, furono le Comunità ebraiche italiane – sottolinea l’attuale presidente della Keillah livornese – aiutandoci con la lingua, con le questioni burocratiche. Noi allora venimmo in Italia per essere italiani e credo sia necessario che oggi ci si faccia carico di dare quel senso dello Stato agli stranieri. Farli sentire parte del Paese. Dobbiamo vincere questa battaglia che mette di fronte integrazione e integralismo”.

Daniel Reichel

(21 dicembre 2016)