…Territori
Con la risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si è interrotta la tradizione maturata nel corso degli ultimi decenni di storia diplomatica secondo cui gli Stati Uniti pongono il veto a decisioni che possano sembrare negative nei confronti dello Stato d’Israele. La direttiva è arrivata chiaramente e direttamente dal Presidente uscente Barack Obama all’inizio dell’ultimo dei suoi 96 mesi di mandato presidenziale. In realtà non è successo nulla di nuovo. Il tono del discorso politico internazionale da sempre ripete gli stessi motivi, e in particolare rifiuta la narrativa israeliana riguardante lo stato dei territori occupati al termine della guerra dei Sei giorni del giugno 1967: territori in grandissima parte non annessi, ma tuttavia amministrati sotto la tutela delle forze militari israeliane. Nessun paese al mondo ha mai approvato la costruzione di insediamenti israeliani nei territori e in particolare in Giudea e Samaria, nota internazionalmente come Cisgiordania o West Bank. Tutti i paesi hanno votato contro, sempre, e in tutte le occasioni possibili. Con l’eccezione degli Stati Uniti. Nessun paese al mondo riconosce oggi Gerusalemme come capitale dello Stato d’Israele dove dovrebbero trovarsi le ambasciate di tutti i paesi che hanno rapporti con Israele. Gli Stati Uniti hanno giocato per anni con la retorica del trasferimento della sede diplomatica, ma a tutt’oggi l’ambasciata sta a Tel Aviv. Di fronte a questi fatti ben noti a tutti, lo stato ebraico sotto la direzione di Benyamin Netanyahu – Primo ministro (con interruzioni) fin dal 1996, e nel corso degli ultimi mesi anche ministro degli Esteri – ha giocato una partita diplomatica sciocca e temeraria. Questa politica autolesionista ha seguito due piste principali, entrambe insipienti e nocive per la causa di Israele. La prima pista è stata quella di ostentare in tutte le occasioni militanza politica a favore del partito Repubblicano statunitense, ossia a favore dell’opposizione politica al presidente Democratico in carica. Netanyahu si è accanitamente opposto a Obama in occasione delle diverse successive campagne elettorali, e lo ha addirittura sfidato pubblicamente in occasione di un plateale discorso a Camere americane congiunte. E dopo tutto questo Bibi si lamenta quando Obama compie la sua perfida e sottile vendetta politica negli ultimi sprazzi del suo mandato. Ancora più grave la seconda pista seguita dalla politica estera israeliana. Gli insediamenti nei territori non rappresentano un blocco unico e ineluttabile ma, al contrario, sono composti da varie stratificazioni che evocano situazioni sociologiche differenti e reazioni ben differenziate in Israele e nel mondo. Esistono i nuovi quartieri ebraici costruiti attorno a Gerusalemme dopo il 1967: Gilo (dove era situata l’artiglieria giordana che nel 1967 cannoneggiava le strade della città), Ramot, Talpiot Mizrach. Chiunque abbia la testa sulle spalle capisce che questi quartieri fanno parte permanente del comune di Gerusalemme, sono abitati non da coloni, ma da normali cittadini urbani, e nessuno sogna che possano essere sgomberati e consegnati a chicchessia. Poi esistono Ma’alé Adumim e Beitàr Élit, due città sui 40-50.000 abitanti a poche centinaia di metri dal vecchio confine, che fungono da quartieri dormitorio per Gerusalemme, anch’esse popolate da pacifici strati sociali medio-bassi. Fanno parte del consenso di ciò che Israele si terrà in qualsiasi accordo con i Palestinesi. Poi c’è il Gush Etzion, il complesso di insediamenti rurali che facevano parte della Palestina ebraica fino al 1948 e sono stati ricostruiti dopo il 1967. Anche questa parte viene raramente messa in discussione nell’ipotesi di un futuro accordo. Poi c’è Ariel, una città più all’interno della Samaria, meno facilmente accessibile. È legittimo discuterne, anche se è improbabile che possa venire rimossa. E poi ci sono diversi insediamenti ebraici isolati sulle colline circondate da villaggi arabi. Per citarne uno solo fra i tanti: Itzhar. Poche persone militanti che non offrono alcun vantaggio sul piano della difesa del territorio, ma al contrario richiedono un grande impegno di difesa militare. In questo caso l’ipotesi di uno sgombero in cambio di adeguato compenso non sarebbe totalmente implausibile e causerebbe fastidi a un numero relativamente minore di persone. Fin qui, tutto è stato costruito su terreni pubblici o regolarmente acquistati da enti e privati israeliani da venditori palestinesi. E infine esiste un piccolo insediamento di militanti, Ammona, che è stato costruito illegalmente sul terreno privato di un palestinese. Ammona è illegale secondo il diritto privato israeliano – non solo secondo il diritto internazionale – e la Corte Suprema israeliana ne ha ordinato lo sgombero già due anni fa, ma il governo di Israele finora ha procrastinato sine die. Nel presentare il caso di Israele di fronte al mondo, Netanyahu avrebbe potuto differenziare la sua politica, avrebbe potuto presentare dei distinguo, avrebbe potuto lasciare qualche spiraglio aperto al possibilismo. Per dare qualche credibilità alla sua stessa affermazione di sostegno alla soluzione di due stati per due popoli, avrebbe potuto lasciar intravvedere quali sono le porzioni di territorio sulle quali Israele non ha pretese o ambizioni. La via da lui scelta invece è stata quella di sostenere tutto e il massimo. Senza distinzione: Gilo, Ma’ale Adumim, Ariel, Izhar, Ammona. È tutto nostro, senza compromessi. Siamo orgogliosi, nelle parole di Netanyahu, di essere il governo che più di ogni altro ha a cuore la causa degli insediamenti e allo stesso tempo promuove una soluzione in cui milioni di palestinesi potranno rimanere nelle loro case ma senza diritto di voto – a spese dell’idea di uno stato d’Israele ebraico e democratico. Ma ora, proprio allo scadere del mandato di Obama, il mondo politico internazionale chiede chiarezza e esprime la sua insoddisfazione di fronte a questo tipo di discorsi.
Il voto al Consiglio di sicurezza è una colossale sconfitta diplomatica per Israele.
È in primo luogo uno schiaffo morale, un gesto di patente antipatia da parte di tutti i paesi coinvolti nel voto, amici, neutrali e nemici. Ma le conseguenze, soprattutto sul piano della Corte internazionale dell’Aja e delle possibili sanzioni economiche anti-israeliane, potrebbero essere molto pesanti.
Per consolarci, concludiamo allora con una metafora sportiva. Quando una squadra di calcio perde per un rigore subito al 96° minuto, è inutile incolpare l’arbitro venduto, il pubblico becero, i giocatori avversari simulatori, o perfino la nostra difesa ingenua e scarpona. Si deve licenziare immediatamente l’allenatore.
Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme
(29 dicembre 2016)