Piccola luce
Potremmo pensare a Chanukkah, anche quest’anno, con il sorriso sornione di chi vede che, di nuovo, le Chanukkiot di casa non hanno preso fuoco – con grande fatica abbiamo infatti rinunciato, da qualche tempo, ad accendere quelle bellissime auto prodotte, dopo un tentativo di incendio al davanzale della finestra del salotto nella nostra vecchia casa, ove avevamo fieramente utilizzato una Hanukkia fatta di DAS e due di legno (materiale altamente infiammabile quest’ultimo, come dire che ce la siamo cercata, ma il DAS?).
Magari, un’altra volta, rifletteremo sul ruolo del genere femminile nella festa e sulle Halakot relative alle donne, nonché sulla differenza tra Tempio e casa nell’accensione di Motzè Shabbat – a casa si dice Havdalà e poi si accendono i lumi, al Tempio viceversa, come ci ha ricordato il Rav a Siena quest’ultimo 24 dicembre, giorno in cui abbiamo acceso la prima luce.
Invece, non so perché ma questa volta, anche a cercare di allontanarlo, ritorna prepotente il ricordo di Hurbinek, di cui abbiamo memoria solo nelle parole di Primo Levi.
“Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero”, rammenta Levi ne La tregua, una creatura del lager di cui nulla si sapeva, non un nome, non la provenienza, non la ragione della menomazione. Semiparalizzato, privo di parola, il bambino cercava di comunicare con gli occhi, si sforzava di articolare vocaboli che però restavano inintelligibili alle orecchie dei prigionieri provenienti da ogni dove. Morì, Hurbinek, un mese dopo la liberazione di Birkenau, “libero ma non redento”, lasciando in noi un grande senso di vuoto e tanti interrogativi.
Mi piace credere, come ha ipotizzato Catherine Coquio in Parler des camps, penser les génocides (Albin Michel 1999), che il suo nome non derivi semplicemente dall’assonanza con i suoni disarticolati che il bimbo pronunciava, bensì da Hourban (distruzione, catastrofe), ovvero la duplice distruzione del Tempio, un termine che per alcuni anni, ancora a genocidio in corso, è stato nel mondo yiddish il vocabolo preferenziale per designare lo sterminio del popolo ebraico durante il Secondo conflitto mondiale (come ricorda tra gli altri Anna-Vera Sullam Calimani in I nomi dello sterminio, edito da Einaudi nel 2001).
Hurbi-nek, “piccolo Tempio”, un nulla agli occhi dei più, una caparbia ragione di vita per il vicino di letto di Levi, il quindicenne Henek, il quale con testarda pazienza accudiva il piccolo e provava con costanza e dedizione ad insegnargli a parlare.
שֶׁעָשָׂה נִסִּים לַאֲבוֹתֵינוּ, בַּיָּמִים הָהֵם…
She assà nissim la avotenu ba yamim hahem…, “che ha fatto miracoli per i nostri padri in quei giorni”…Si dispiegano le immagini del miracolo di allora, con gli Hasmonaim alla guida di uno sparuto gruppo di ebrei contro il grande esercito seleucide di Antioco IV Epifane, la famiglia dei robelli Makabim finalmente vittoriosi dentro il Tempio profanato dagli ellenici, ed una sola boccetta di olio puro con ancora il sigillo del Kohen Gadol, miracolosamente bastevole per gli otto giorni necessari a preparare altro olio in modo che la Menorà potesse illuminare di nuovo il Tempio…
Le immagini del miracolo di allora si sovrappongono all’amorevolezza di questo ragazzino capace, nel vuoto del lager, di aiutare un “piccolo Tempio” profanato a mantenere un barlume di umanità. Una piccola luce, un piccolo miracolo, per quei giorni bui non così lontani.
Sara Valentina Di Palma
(29 dicembre 2016)