…dialogo

Nella ricerca di un po’ di serenità vacanziera mi ero ripromesso di dedicare la mia nota di oggi, per un’ennesima volta, a un articolo pericolosamente deviante sul Mercante di Venezia, uscito su Repubblica del 31 dicembre scorso a firma di Alberto Manguel, un noto scrittore argentino, già ambasciatore in Israele e amico-lettore di Borges. Un caso interessante, che tuttavia posporrò, perché il corso del tempo, della storia e degli eventi proposti dal contingente, scritti per noi nell’imprescindibile, mi costringono a un cambio di programma.
La mia ultima nota, infatti, ha suscitato reazioni diverse, su queste pagine, ma anche, malauguratamente, sulle pagine non sempre civilmente argomentate – anzi, spesso assai poco civili e altrettanto spesso dis-argomentate – dei media sociali.
Il tema, come ci si può aspettare, è l’acuminata spina della politica attuale del governo di Israele. Dopo l’amaro fastidio prodotto da deraglianti e capziose argomentazioni, offensive illazioni, quando non insulti diretti, proposti sui media ‘sociali’ contro chi espone idee governativamente dissenzienti, leggere civili contestazioni su queste stesse pagine è davvero confortante. Tanto che si è tentati di concentrarsi più sulla civiltà delle obiezioni svolte che non sul loro merito.
Ci si potrebbe soffermare su alcune specifiche contestazioni per contestare, a propria volta, che nessuno al mondo oserebbe negare che Israele sia uno stato democratico, l’unico dell’area in cui si siano svolte democratiche elezioni; che nessuno disconosce che la maggioranza dei cittadini israeliani è con Netanyahu, altrimenti egli non sarebbe alla guida del paese; che è fuori di dubbio che molto anti-israelianismo che gira per il mondo è di matrice antisemita, ma certo non tutto. E dico anti-israelianismo appositamente (a qualcuno potrà non piacere, e me ne dolgo assai) per evitare l’ambiguità antisemita di chi usa il termine antisionismo senza neppure conoscere contenuti, storia e sviluppo ideologico del sionismo. Il sionismo non è una parolaccia, e persino la sua enunciazione, a mio modo di vedere, va difesa da deformazioni malintenzionate.
Ma continuare su questo percorso di pensiero mi sembra sterile. Il problema non è contestare le contestazioni e rispondere a queste contestando le contestazioni delle contestazioni, quanto riconoscersi reciprocamente il diritto ad affermare e a contestare. E, se possibile, usare nella logica un metodo di onestà che non opponga a un’affermazione politica sugli insediamenti – a puro titolo di esempio – un’argomentazione sulla democraticità dello stato o sulle sue scoperte scientifiche e tecnologiche (di fronte alle quali tutto il mondo dovrebbe ciò nonostante chinare il capo deferente e grato).
La nota di oggi si fa complessa, me ne rendo conto. Non complicata, ma complessa, cerca di connettere una pluralità di fila avendo di mira un’idea più inclusiva della semplice individuale polemica.
La semplicissima affermazione che io ho svolto e svolgo nelle mie povere e insignificanti note è che non mi piacciono gli insediamenti, per motivi variegati che ho forse già esposto nel tempo. La semplicissima opinione che più volte ho anche espresso è che non credo che la politica degli insediamenti rappresenti, nel tempo, il bene di Israele. Nessuno al mondo potrà dimostrarmi che ho torto. Come io stesso non sono in grado di dimostrare che, alla lunga, la politica degli insediamenti non sia il bene supremo di Israele. Ed è per questo che non ho mai preteso di tacitare chi la afferma. Se ne discute, magari ci si litiga, ma se ne parla, e ci si riconosce il diritto reciproco a parlarne e a esprimere le proprie contrastanti idee. Senza porsi veti, senza accusarsi di star screditando Israele, o di odiare Israele e gli ebrei, ossia se stessi. Perché anch’io potrei asserire allora, che chi afferma la giusta necessità degli insediamenti, sta portando il paese al disastro, e quindi odia Israele e gli ebrei tout court. Ma la sfera di cristallo non è nelle mani di nessuno di noi. Si può solo cercare di ragionare con la propria coscienza, ma anche, come fanno molti, con l’utilità politica di una certa scelta che sembra garantire maggiore sicurezza al paese.
Io sto per la coscienza, ma capisco benissimo, anche se non sono d’accordo, chi opta per altre strade. Ciò che non consento a nessun mio interlocutore (e mi scuso per la dogmaticità dello stile) è che venga messo in dubbio il mio amore per Israele o, mal gliene incolga, il mio amore per la mia stessa ebraicità.
Nel 1967 si sono precipitati in aiuto di Israele ebrei da tutto il mondo, non esclusa l’Italia. E non si sono chiesti a che cosa sarebbero andati incontro una volta laggiù, dove si sarebbero trovati, che cosa avrebbero rischiato. Più di un pacifista ebreo è morto per Israele. Israele è in cima ai nostri pensieri indipendentemente da come la pensiamo; e indipendentemente da come la pensiamo siamo, tutti, pronti a riprendere aereo, nave o barchetta per andare a garantirne l’esistenza. Almeno su questo dovrebbe fondarsi la nostra unità e il nostro rispetto reciproco. Ma unità non significa conculcare la libertà di pensiero, in nome di un malinteso e distorto principio di fedeltà, utile solo a isolare l’interlocutore nella categoria del tradimento. Unità non significa chiedere che venga garantita la parola soltanto alla maggioranza (ma la maggioranza, anche quella silenziosa, la si dimostra con una votazione, non con le parole) e tacitare la minoranza, di qualsiasi colore essa sia.
Pagine Ebraiche, l’ho già scritto altrove, mi ha dato in questi anni la possibilità di esprimermi. L’ho sempre fatto a nome mio, mai per rappresentare idee altrui, private, di gruppo o istituzionali. Nessuna lobby che non sia quella del mio cervello, piccolo o grande che sia. Ho cercato di non offendere nessuno. Ho cercato di non offendere le idee di nessuno, quando non siano state idee antiebraiche: quelle del fascismo, vecchio e nuovo, o quelle dello stalinismo, vecchio e nuovo. Credo che Pagine Ebraiche, che non ha certo bisogno della mia difesa d’ufficio, non rifiuti contributi di chi, con correttezza d’espressione e rispetto dell’altro, voglia esprimere idee di qualsiasi sorta.
Bene, se qualcosa di utile il frutto della mia crisi di ebreo ha sortito è stato, con mia grande soddisfazione, le contestazioni che mi sono state rivolte su queste stesse pagine, Pagine Ebraiche nel vero senso della parola. Contestazioni in cui posso benissimo non riconoscermi, che in buona parte non condivido, che ritengo talora fuori centro. Ma ho la soddisfazione, grande, di aver visto iniziare un dialogo, aspro anche, ironico talora, a volte (per me) fastidiosamente sarcastico, ma un dialogo. E dialogo non significa sempre accordo. Può anche significare aperto dissenso. Ma si dimostra così che il giornale, se lo vogliono tutti, può essere pluralista. Con rispetto.
Se qualcuno però vuole che Pagine Ebraiche non sia questo, non ha che da dirlo. E, personalmente, scriverò soltanto sul Mercante di Venezia. Sempre che qualcuno, in dissenso con la mia visione critica, non me lo impedisca.

Dario Calimani, Università di Venezia

(3 gennaio 2016)