Festeggiare
Aveva sempre mal tollerato la diffusa credenza nell’obbligo di festeggiare, sempre e comunque, la fine dell’anno civile, ed in altre parole il tempo che passa, senza alcuna connessione con motivazioni etiche, storiche, religiose. Di queste serate aveva, perlopiù, pessimi ricordi, nel migliore dei casi l’ombra di una sottile malinconia. Una cena con gli amici? Perché non farla in qualsiasi altra sera, contestava. In che cosa, si chiedeva, questa sera è diversa da tutte le altre sere? E non trovava neppure una risposta, figuriamoci quattro.
Negli ultimi anni, certo, erano state occasioni più serene, ammantate di normalità con persone cui voleva bene, e provava tuttavia una certa ritrosia ai seguenti rituali, in ordine crescente di fastidio: agghindarsi a festa, attendere svegli la mezzanotte, dedicarsi ai brindisi collettivi, esprimere bilanci pubblici con i buoni propositi per il nuovo anno.
D’altronde, pensava, aveva alle spalle ben 5777 capodanni che calcolassero la progressione degli anni, stabilendo la data della Shemità e, finché il Sanhedrin non fu disciolto dopo la distruzione del secondo Bet HaMikdash, anche quella dello Iovel, il Giubileo che diversamente dalla Shemità non osserviamo più dalla distruzione del primo Tempio (benché, appunto, dopo la fine dell’esilio babilonese avesse ripreso ad essere conteggiato).
Non mancavano, volendo, neppure altri capodanni oltre al Iom Teruaà (così chiamato per il suono dello Shofar) o come preferiva pensarlo Iom HaDin, dato che il Signore inizia in questo giorno ad esaminare la nostra condotta per decidere, entro la fine di Yom Kippur, se scriverci o meno nel libro della vita.
Inutile illudersi che bastasse una serata per le scuse, il computo dei comportamenti malvagi e di quelli altruisti, le promesse, quando sappiamo che questo lavoro ci dovrebbe avere già impegnato duramente per dieci giorni terribili alcuni mesi or sono.
La Mishnà ci consegna poi ben “Arbaa rashè shanim”, quattro capodanni, ovvero il già menzionato primo di Tishrì (che è capodanno anche per piantare gli alberi), il primo di Elul (che serviva per stabilire la decima ovvero l’anno fiscale), il 15 di Shevat per il capodanno degli alberi ed infine il primo di Nissan per le feste di pellegrinaggio (Talmud Bavli, Rosh HaShanà 1, 1). Non c’è che l’imbarazzo della scelta, dunque.
Ma se proprio doveva fare uno sforzo per essere più conforme, e non dico festeggiare ma almeno condividere la serata del 31 dicembre, nonché trovarvi un senso, almeno per rinnovare i propositi stabiliti a Rosh HaShanà, questo poteva essere in una delle tante, densissime frasi lette nell’ultimo romanzo del suo scrittore preferito, che pure ora aveva trovato imbarazzante, doloroso, a tratti irritante leggere, come se facendolo avesse grattato via la crosta di una delle tante ferite alle ginocchia nell’infanzia. Una, tra tutte, meritava di essere letta soppesata, assorbita con le bollicine dello spumante di mezzanotte: “riesce a far sentire ai ragazzi che nessuno al mondo è migliore di loro e che loro non sono migliori di nessun altro” (Jonathan Safran Foer, Eccomi, Guanda 2016, p. 131).
Ecco, riuscire a fare questo, quale migliore proposito per il 2017?
Sara Valentina Di Palma
(5 gennaio 2017)