ORIZZONTI Il messaggio dei nuovi carnefici

aleppoLe ultime notizie parlano di violenza profonda, di non rispetto della vita degli altri. Qualcuno sostiene – secondo me non a torto – che il corpo degli altri è tornato ad essere un oggetto violabile a piacimento. La tortura secondo costoro – per esempio Donatella Di Cesare che nel suo Tortura (Bollati Boringhieri) ne scrive con molta intelligenza puntuta – anche per questo motivo vivrebbe una nuova stagione di successo. Molti ritengono che la memoria sia stata azzerata, e che a Aleppo, o nei molti luoghi della morte di massa che negli ultimi anni hanno dato forma alla geografia della violenza – nelle molte città dei conflitti di religione, ma anche lungo i molti punti acqua che dividono l’Europa dai luoghi della persecuzione o lungo i molti muri del nostro tempo – sia stata perduta la scommessa di uscire dal secolo dei genocidi. La mia convinzione è che non solo quel secolo non l’abbiamo mai abbandonato ma che sotto molti aspetti ci siamo con entusiasmo iscritti a un nuovo ciclo di “violazione del corpo degli altri”. “Chi ha memoria è in grado di vivere nella fragilità del tempo presente. Chi non ce l’ha non vive da nessuna parte”. Così dice Patrizio Guzmán, regista cileno, in un suo film – Nostalgia della luce – a proposito dei desaparecidos e dei loro famigliari che li cercano, senza mai smettere di chiedere ai responsabili di quelle sparizioni. Non si ha memoria. Ci si costruisce memoria. La memoria non è un fatto. È un atto, un atto concreto, vivo, tangibile. Memoria non è un oggetto. È una deliberazione, fatta d’insistenza, e anche di orgoglio. In tempi recenti soprattutto, sembra l’effetto di un’ostinazione. Credo sarebbe sbagliato interpretare la memoria come contro-storia. Non mi ha mai convinto l’idea che la memoria fosse quella procedura che consentiva di “rimettere le cose a posto”, contrariamente a una narrazione pubblica, a una lingua “dominante”. La memoria, infatti, non è una procedura contro la corruzione del tempo, anche se per molti può essere così. La memoria è, invece, contemporaneamente tanto un processo operativo, che un effetto. Da una parte è un processo operativo, in altre parole una procedura che testimonia dei processi culturali che mettiamo in moto ogni volta che proviamo a scavare indietro e ci mettiamo in cerca di “assonanze”. Dall’altra, è un effetto di come si costruisce quel complesso di parole, immagini, frasi che appunto, chiamiamo memoria. In quelle due procedure stanno le sfide di questo nostro tempo che riguardano non solo che cosa riteniamo sia un fatto storico rilevante, ma anche, e forse soprattutto, in che modo quel “fatto” parli a noi e se abbiamo davvero voglia di assumerlo per noi come fatto rilevante. A lungo abbiamo ritenuto che il nostro presente di ora fosse la risposta a cose che erano mancate in passato. Così dall’ultimo scorcio di Novecento abbiamo pensato che il nostro futuro fosse la risposta a un passato prossimo imbarazzante. Oggi noi sappiamo che questa convinzione era sostanzialmente una convenzione e che di nuovo si è aperto il tempo della violenza. I praticanti della violenza sul corpo degli altri nei molti luoghi della morte contemporanea non sanno che farsene delle immagini degli stermini di massa del Novecento. Comunque sono immagini con cui hanno già fatto i conti e hanno deliberato che quelle immagini sono irrilevanti. La guerra ai carnefici del nostro tempo è una guerra al fanatismo, come sempre del resto. I fanatici non si lasciano commuovere da immagini che raccontano la loro potenza distruttiva.

David Bidussa, Storico sociale delle idee
Pagine Ebraichem gennaio 2017