Pensare ebraicamente
Quando domenica, in occasione del digiuno del 10 di Tevet, ci recheremo nelle varie sinagoghe per ricordare anche quelle vittime della Shoah di cui non è nota la data della morte e per cui si recita un kaddish, ci renderemo conto come di quanto ci si è assimilati ad usi e costumi altrui. Durante la Giornata della Memoria le nostre sinagoghe sono invece piene di ebrei professionisti del ricordo, che di fronte a telecamere e ospiti illustri non mancano di ricordare il dramma della Shoah. Non ci sono mai però nel giorno in cui il ricordo è silenzioso, ma soprattutto ebraico. Secondo la forma e le regole previste dall’ebraismo. Meno telecamere, ma astensione dal mangiare e dal bere per poche ore (capitando a dicembre o gennaio e essendo dall’alba al tramonto è il digiuno che dura meno). Il problema, va chiarito, non è la spettacolarizzazione della Shoah e la retorica della Giornata della Memoria, ma il fatto che molti ebrei siano completamenti assuefatti a logiche non ebraiche che sia per il ricordo della Shoah che per aspetti della vita comune. Il processo di assimilazione è complesso e pieno di sfumature, ma nasce, soprattutto nella società moderna quando si ritiene che non esista un approccio ebraico alla vita di tutti i giorni. Non può stupire per questo che sedicenti intellettuali citino personalità cattoliche per fare gli auguri per l’inizio di un anno non ebraico all’interno del portale dell’ebraismo italiano, perché l’equivoco di fondo è che per molti, l’aggettivo ebraico significa realizzato da ebrei e non invece secondo il pensiero ebraico. L’ebraismo italiano dovrebbe invece tornare a pensare ebraicamente, così da stimolare la società in cui viviamo con il nostro punto di vista dettato dalla tradizione. Se invece il nostro contributo non si distingue da quello del resto della società diventa inutile se non superfluo.
Daniel Funaro
(5 gennaio 2017)