Shir Shishi – Avraham Sutzkever, il poeta yiddish
“Lo yiddish – scrive la yiddishista Anna Linda Callow – era visto come un pericoloso concorrente per la rinascita della lingua ebraica (in Eretz Israel), fu oggetto di violente contestazioni pubbliche e boicottaggi. Nel 1927 si arrivò al punto di bocciare la proposta di istituire una cattedra di yiddish all’Università ebraica di Gerusalemme, che era stata da poco fondata”. Nell’agosto 1949, una commissione governativa decretò addirittura un divieto di presentare pièce teatrali in questa lingua. L’interesse per la ‘mame loshen’ è tornato cheto cheto con la grande immigrazione russa degli anni Ottanta, con l’interesse dell’accademia francese, americana e poi anche israeliana per una cultura che costituiva la linfa dell’ebraismo dell’Est Europa.
Tra i grandi interpreti dello scorso secolo di questa cultura, Avraham Sutzkever. Nato in Lituania nel 1913, vissuto tra la Polonia e la Russia nelle diverse fasi tragiche cha portarono alla Seconda Guerra Mondiale, fu rinchiuso nel ghetto di Vilna ma riuscì a salvarsi con la moglie. Fece parte dei gruppi partigiani e nel ’44 Stalin lo potrò a Mosca con un aereo speciale e fu l’unico testimone ebreo ai processi di Norimberga. Arrivò in Israele con la moglie Frida nel ’47 e dopo due anni fondò una rivista letteraria di nome “La collana d’oro”. Godette di fama e grande stima e i più grandi poeti e traduttori israeliani, da Lea Goldberg, ad Avraham Shlonsky e Benjamin Harshav, che tradussero le sue liriche. Morì a Tel Aviv all’età di 97 anni, segnando con la sua dipartita la fine della produzione letteraria eccellente in yiddish.
La lingua stessa vive oggi un altro percorso, tra i centri haredi sparsi in tutto il mondo e la ricerca mescolata alla nostalgia dei dipartimenti universitari, che ci permette, anche in Italia, di comprendere la grande perdita.
Un poeta yiddish
Un degno poeta yiddish,
un uomo importante
mi appare
nel momento della divina opera della creazione e mi dice:
Ho già composto, in un momento favorevole,
l’epitaffio per la mia tomba,
sì, qui a Tel Aviv,
e tra cent’anni
voglio che sia scolpito
sulla mia lapide con la pazienza di chi sa dominarsi.
Mi dice il notaio:
no!
Se vuoi morire tranquillo,
senza nervosismo,
suona le corde dello Stradivari
usando la lingua ebraica.
Ahimè, in questo modo, da morto
attirerò una maledizione sulla mia vita!
Verrà un ebreo dall’America,
e deporrà i fiori
su qualcun altro,
e di me non si accorgerà affatto.
Dammi un consiglio, mi scoppia la testa, salvami!
E io gli risposi in modo chiaro:
è ormai tempo di ricordare
che a un poeta yiddish è vietato morire.
Traduzione di Anna Linda Callow, 2008
Sarah Kaminski, Università di Torino