Seinfeld e gli scatti del Golem
Tra le tante opere esposte alla mostra sul Golem al Museo Ebraico di Berlino ci sono alcune fotografie di Joachim Seinfeld. Pittore e fotografo, vive e lavora nella capitale tedesca da molti anni. Raggiungere il suo studio nel tardo pomeriggio invernale non è stato facile: si trova infatti in un’area industriale di periferia, buia e quasi deserta, sulle rive della Sprea, dove ha affittato uno spazio nel “Funkhaus”, un vecchio edificio in mattoni che un tempo era la sede della radio della DDR ed ora ospita vari atelier di artisti. Siamo qui per completare il servizio di Sorgente di vita dedicato alla mostra. Carichiamo tutta l’attrezzatura della troupe in un ascensore d’epoca che sale fino al quarto piano con preoccupanti cigolii: Seinfeld ci viene incontro e ci fa strada lungo un corridoio deserto, con scarse luci al neon, mobili abbandonati, tanta polvere e un freddo cane. Ci accoglie nel laboratorio fotografico, tra tele, barattoli, taniche di acidi e varie attrezzature. “Sono nato nel 1962, a Parigi, per caso, – racconta in buon italiano – ma sono cresciuto a Monaco; dopo la scuola ho deciso di andare via, sono stato in Italia, in Francia, in Spagna e poi di nuovo in Italia per tre anni. Ho studiato all’Accademia di Belle Arti a Firenze e mi sono diplomato nell’87, poi sono tornato in Germania. Negli anni ’90 ho lavorato in Polonia e poi nel ’99 sono arrivato a Berlino”. Fin dagli inizi Seinfeld ha cercato di applicare le tecniche fotografiche alla pittura utilizzando emulsioni di gelatina d’argento con effetti particolarmente suggestivi. Il suo contributo alla mostra sul Golem sono cinque fotografie in bianco e nero: una sequenza di autoritratti con il suo viso ricoperto di argilla. “La prima volta che ho incontrato il Golem è stato all’età di 14 o 15 anni. Come molti ragazzi tedeschi lessi il romanzo di Gustav Meyrink che in realtà non ha niente a che fare con la storia classica del Golem, è un romanzo psicologico che, riletto oggi, risulta insopportabile. Poi ho letto il Golem di Chaim Bloch e altre versioni della storia, ma l’interesse artistico nasce nel ’99 quando venni invitato a Milano per partecipare ad una mostra sui temi dell’utopia e della violenza”. Temi stimolanti per un artista ebreo tedesco, testimone di cambiamenti epocali nella Germania del suo tempo ed erede di un’ emblematica storia familiare. “Mio padre fuggì da Vienna nel ’38 e andò in Palestina con l’Hashomer Hatzair. Combattè con gli inglesi nella II Guerra Mondiale e poi partecipò alla guerra d’Indipendenza d’Israele nel ’48. Negli anni ’50 si trasferì negli Stati Uniti, poi arrivò a Monaco. Mia madre invece viene da una cosiddetta famiglia “mista privilegiata” e per questo si è salvata, pur rimanendo in Germania”. La Shoà e le guerre di ieri e di oggi, il tema dell’identità in un mondo, e in una Germania, che si confrontano con le sfide della società multiculturale, con i problemi dell’accoglienza e dell’integrazione, con la crisi dei valori: questi i temi sviluppati da Seinfeld nelle sue opere. “Secondo me l’immagine del Golem si adatta benissimo al tema delle utopie: creato per fare del bene, per proteggere, per salvare la comunità ebraica alla fine si scatena, non è più sotto controllo e comincia a danneggiare la comunità stessa. Mi è sembrata una immagine adatta per rappresentare le utopie, idee che nascono per migliorare l’umanità e poi spesso finiscono per ottenere un risultato contrario”. Significativa la scelta dell’autoritratto per i cinque pezzi esposti alla mostra. “Perché l’autoritratto? Innanzitutto perché dentro di noi c’è sempre un po’ del Golem. E l’artista rimane sempre legato alla propria opera. Per questo mi è sembrato opportuno usare la mia faccia, sono io che so cosa voglio fare, cosa voglio rappresentare”. “Nell’ultima fotografia guardo le mie mani: perché tutto quello che realizzo lo faccio con le mani, la scrittura, la pittura, la fotografia. E allora guardo le mani e mi chiedo ‘cosa avete fatto?’ Io volevo fare tutt’altra cosa e poi è andata diversamente. Apparentemente c’è un distacco tra l’intelletto e le mani, ma in realtà non esiste, è solo una barriera di autodifesa che creiamo per noi stessi”. Ma come artista ha mai avuto l’esperienza di un’opera che in qualche modo si è rivoltata contro? “No, questo no – risponde Seinfeld – ma ho notato che dopo aver lavorato a lungo su temi come la Shoà, sulla storia dei crimini del nazismo non è tanto la tua opera che si rivolta contro di te ma è il tema che diventa quasi una fissazione e cadi in uno stato di depressione. Mi è successo negli anni ’90 e allora ho detto ‘adesso basta, bisogna fare anche altre cose’. Ma dopo un po’ di tempo ci si può ritornare sopra”.
Piera Di Segni
(8 gennaio 2017)