Società – Terrorismo e democrazia. Se l’Islam fa autocritica
L’annoso problema della compatibilità dell’Islam con la democrazia,i diritti umani e lo sviluppo economico capitalista rappresenta ormai una questione esistenziale per quella parte di mondo musulmano che si interroga su come affrontare la crescente islamofobia e, più in generale, il rapporto con la modernità. Un significativo contributo proviene da una lettera— pubblicata sulla rivista Foreign Affairs — in cui il diplomatico emiratino Omar Saif Gobash affida i suoi consigli al figlio sedicenne e idealmente a tutti i giovani musulmani. Si tratta di argomenti facilmente strumentalizza-bili che egli esamina con forte spirito critico specie di fronte ad alcuni ricorrenti luoghi comuni: a partire dalle responsabilità dei terroristi islamici. Si dice che «queste persone non hanno nulla a che fare con l’Islam» ma per lui si tratta di un «ritornello» che non funziona: essi sono musulmani in quanto proclamano che Allah è il solo dio e Maometto il suo Profeta e tanto basta. Coloro che si oppongono al pensiero jihadista non devono solo rompere il silenzio ma dar prova della propria contrarietà manifestando l’idea che il dubbio possa applicarsi anche alla fede perché la genuina tradizione islamica è predisposta a «dibattere per costruire consenso». A chi considera la democrazia un peccato contro il potere e la sovranità di Allah, Gobash (oggi ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Mosca) replica :«io rappresento una monarchia, ma non considero eretico o non islamico chi propone riforme democratiche». Altrettanto ardito appare il suo approccio al tema della disparità fra sessi e della pretesa inferiorità biologica e psicologica della donna la quale andrebbe protetta da un mondo pericoloso: ciò che egli considera la classica opinione che si autoavvera. Non vi è nulla — precisa l’autore — di «scolpito nella pietra» che sancisca tale inferiorità. Non si tratta dunque di un dovere religioso, ma solo dell’eredità di società patriarcali. Questi limiti, dal velo al divieto di muoversi da sola alle restrizioni nel campo dell’istruzione e del lavoro, non hanno fondamento dottrinale ma discendono dal timore maschile di perdere il controllo sulla donna e persino di subirne la concorrenza professionale. Altro luogo comune è quello sulla corruzione. La Fratellanza Musulmana dice che se i corrotti fossero veri musulmani questo non accadrebbe in quanto l’Islam è la soluzione di tutto. Pertanto, se i successi di un glorioso passato sono stati realizzati sotto regime religioso, costruendo oggi un nuovo Califfato che imponga le leggi dell’Islam, ogni problema sarebbe risolto da Allah. A questa asserzione risulta non facile controbattere perché Maometto, in definitiva, era anche un leader politico. Gobash osserva che in fondo i fanatici dell’Isis o i sottili teocrati della Fratellanza coincidono nella convinzione che ogni fallimento derivi da mancanza di fede e devozione. Ma con questo approccio si dà per scontata una semplicistica benevolenza divina, quando invece «dovremmo fare come i musulmani delle origini studiando e lavorando sodo, senza affidarci a un comodo oscurantismo». E infine viene affrontato il tema della ummah o comunità dei fedeli che sovrasta l’individuo e crea un’anacronistica pseudo-identità in chiave anti-occidentale.Tutto questo compromette il dibattito interno e il dialogo esterno: occorre invece riferirsi a responsabilità e scelte etiche personali piuttosto che a famiglie, tribù o sette. Se il principale comandamento che presiede ad ogni forma di dialogo interreligioso o interculturale è di fare giustizia del concetto della propria superiorità, il messaggio di Gobash rappresenta uno straordinario punto di partenza per un confronto aperto che venga trasferito da un livello intellettuale alla pratica quotidianità in linea con la riflessione avviata di recente dal nostro governo.
Francesco Maria Greco, Corriere della Sera, 9 gennaio 2017